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30 DICEMBRE 2010

L'IMPERATORE IN MOSTRA
Se vi capita di passare per Dearborn, nel Michigan, non dimenticatevi di fare una visita al Museo di Storia Naturale dell’Università. Perché potreste vedere uno dei fossili più straordinari esposti in qualsiasi museo del mondo. Basilosauro
Quello di un basilosauro (sauro imperatore), un animale acquatico vissuto fino a 37 milioni di anni fa, e che ora occupa l’intero soffitto della galleria al secondo piano del museo. Il fossile sarà il simbolo della mostra Back to the Sea: The Evolution of Whales che sarà inaugurata in Aprile. Lungo 16 metri è completo in ogni sua parte: a far certamente impressione è il cranio e l’apertura boccale con denti lunghi 10 centimetri.

È un fossile spettacolare – afferma Amy Harris,  direttore del museo – perchè può davvero dirci molto sulla storia evolutiva di questi animali che hanno scelto l’acqua e quindi, a differenza nostra, sono tornati nell’elemento da dove tutti siamo venuti. Da dove la vita ha preso inizio.

Il fossile è stato scoperto nel 1987 dal gruppo di ricerca di Philip Gingerich, direttore del museo di Paleontologia della U-M, l’Università del Michigan. Dalla sabbia del deserto Wadi Hitan, in Egitto, è emerso prima un dente poi la parte inferiore della mascella ma la stagione di ricerca era giunta al termine, il tempo era inclemente e così i ricercatori lo hanno ricoperto e nascosto di nuovo sotto la sabbia. Due anni dopo sono venuti alla luce il cranio e l’intera mandibola che sono stati esposti nel 1997.
La regione desertica del ritrovamento è nota come Valle delle Balene e l’UNESCO l’ha recentemente classificata come World Heritage Site per via dei numerosi fossili presenti nell’area. Ma Gingerich e i suoi colleghi, nel frattempo impegnati in Pakistan, sono potuti ritornare in Egitto solo nel 2005 e hanno cercato di riannodare il filo del lavoro iniziato vent’anni prima. L’obiettivo era di ritrovare il resto del corpo del basilosauro.
Una volta ritrovate le altre ossa (il luogo era stato mappato con estrema precisione), ottenuto i permessi per portarle negli Stati Uniti c’è voluto più di un anno di lavoro per ripulire e stabilizzare tutti i reperti. Non poca roba, circa 4 tonnellate di materiale, e poi c’e stato tutto il lavoro di modellizzazione e di creazione di repliche dello scheletro per lo studio, le esibizioni museali e lo scambio con altre istituzioni. Altri due anni di duro lavoro.

È stata l’esperienza più intrigante della mia vita – le prime parole di Philip Gingerich al giornalista del National Geographic che lo ha intervistato – Avere questo fossile nel nostro museo mi rende felice. Perché è stato un progetto incredibile, infinito e che ha coinvolto molte persone, molte nazioni e tanti saperi diversi.

Fonte: Oggi Scienza a cura di Mauro Colla.

27 DICEMBRE 2010

ATTACCO A SHARM: STRAGE DI SQUALI
Sono almeno una decina gli squali per i quali, secondo alcune fonti, ne sarebbe stata documentata l’uccisione dopo gli incidenti delle scorse settimane. A Sharm el-Sheikh, infatti, una turista tedesca era stata uccisa da uno squalo, mentre altri quattro aggressioni, ai danni questa volta di turisti russi, sono state denunciate nello stesso periodo. La notizia dell’uccisione dei dieci squali arriva in coincidenza con l’annuncio della riapertura alla balneazione per buona parte delle spiagge che erano state interdette dopo i tragici fatti. Per nessuno di questi squali, però, è stato fornito alcun elemento che potesse collegarli in qualche maniera con i recenti incidenti.
Le autorità egiziane, evidentemente imbarazzate dalla diffusione della notizia, hanno negato la morte di un numero così elevato di squali, limitandosi a riferire che tre o al massimo quattro squali sarebbero stati catturati e, forse, morti dopo. La notizia, diffusa dalla BBC, lascia quantomeno perplessi anche sulla reale efficacia delle azioni di prevenzione.
Nei giorni scorsi erano state avanzate numerose ipotesi circa l’improvviso intensificarsi degli attacchi degli squali. Tra queste, l’abitudine da parte di numerosi sub, che si recano a fotografe questi animali, di fornire loro cibo fin sotto costa. Altre fonti hanno riferito degli impulsi elettrici delle stesse macchine fotografiche che verrebbero captati dagli squali. C’è stata poi l’ipotesi che gli animali si potessero essere così avvicinati a seguito dell’abbondante dispersione in mare di resti di ovini conseguenti alla recente ricorrenza musulmana della festa del Sacrificio.
Non sono mancate, inoltre, le congetture più incredibili come quella che gli squali sarebbero stati liberati dal Mossad, il potente servizio segreto israeliano, per distruggere l’industria turistica egiziana. Infine, è arrivato il turista ubriaco serbo che avrebbe finito a testate lo squalo aggressore, solo che la foto diffusa si è scoperta dopo essere stata scattata parecchi mesi addietro in altro luogo ad un innocuo squalo elefante. Intanto, dieci squali sarebbero morti senza avere risolto, peraltro, il problema.
L’ Autorità egiziana che avrebbe chiamato in ballo i servizi segreti israeliani è la stessa che ora nega l’uccisione degli squali dicendo che ne sono stati catturati tre o quattro e che sono morti dopo. Fonte Geapress.

26 DICEMBRE 2010

SCORPIONE DI MARE: FORSE NON ERA IL TERRORE DEI MARI DEL PALEOZOICO

Scorpione di mare
Pterygotid eurypterids e altri artropodi che hanno dominato i mari del Paleozoico da 470 a 370 milioni di anni fa, e che sono comunemente noti come scorpions sea, forse non erano così terribili. Alcuni esemplari superavano i due metri e mezzo di lunghezza e le loro chele erano grandi tanto da tagliare facilmente in due un un uomo. O forse no? In realtà un nuovo studio afferma che questi artropodi non erano così forti, e potevano sviluppare una presa di pochi Newton (unità di misura che indica la forza peso). Infatti le loro chele probabilmente non erano molto mobili e potevano sviluppare una forza non superiore ai 17 Newtons: la scarsa mobilità e la presa non eccezionale suggeriscono che tali animali potevano catturare solamente piccole prede peraltro poco mobili e "soffici", sicuramente non corazzate come altri animali del periodo. Forse si nutrivano di animali gia morti che trovavano sul fondo marino.
Fonte: Laub, R.S., Tollerton, Jr. V.P. and Berkof, R.S. The cheliceral claw of Acutiramus (Arthropoda: Eurypterida): Functional analysis based on morphology and engineering principles. Bulletin of the Buffalo Society of Natural Sciences.

24 DICEMBRE 2010

ECOSISTEMA FOSSILE
Una collina nel sudest della Cina nasconde un intero ecosistema marino risalente a 252 milioni di anni fa (ovviamente in forma fossile). La cosa notevole è che questo ecosistema risale al periodo subito successivo alla più grande estinzione di massa alla quale abbia assistito il nostro pianeta.
Fra i reperti: molluschi, ricci marini, artropodi e animali più grandi come pesci carnivori e antichissimi ittiosauri, rettili marini predatori, lunghi fino a 4 metri. E poi vegetali (anche una parte di una conifera) e interi pezzi di terreno fossilizzato.
L’estinzione avvenuta nel periodo permiano è stato un evento catastrofico senza pari: il 96% delle specie marine e il 70% di quelle terrestri sono svanite e ancora non se ne conoscono le cause con certezza. Secondo Michael Benton, paleontologo dell’Università di Bristol che ha studiato i reperti cinesi (i risultati sono pubblicati sui Proceedings of the Royal Society B) il motivo potrebbero essere i fenomeni eruttivi massicci e prolungati che hanno avuto luogo nell’attuale Siberia. Per quasi mezzo milione di anni si sarebbe riversata nell’aria una quantità spaventosa di gas. Questo gas avrebbe provocato un rapido aumento della temperatura globale, con la conseguente stagnazione degli oceani (le correnti si sarebbero improvvisamente interrotte). Sulla terra invece i gas avrebbero provocato piogge acide massicce, con l’azzeramento delle foreste.
Le poche creature viventi rimaste hanno resistito alle condizioni durissime, ripopolando successivamente il pianeta. Benton e colleghi hanno studiato i fossili cinesi per capire come la vita possa rifiorire dal collasso.
"Il tema del recupero dall’estinzione di massa interessa anche le preoccupazioni attuali sulla biodiversità e la conservazione. Perché certe specie si estinguono? Quali specie ritornano? Come si ricostruisce un ecosistema e quanto tempo ci vuole?" ha commentato lo scienziato. I fossili di Luoping (l’area in cui sono stati trovati) mostrano che i molti piccoli organismi alla base della catena alimentare ci hanno messo da due ai tre milioni di anni a ritornare. Una volta ristabiliti, sono potuti tornare anche gli animali che di essi si nutrivano (molluschi e bivalve) – le ammoniti a spirale sono tornate con una velocità sorprendente -. Solo molto più tardi, infine, sono arrivati i grandi predatori. La gran parte degli animali che sono tornati c’erano già prima, ma si è anche creata un possibilità per nuove specie. Gli ittiosauri per esempio prima dell’estinzione non erano praticamente presenti, ma dopo hanno proliferato. Fonte: Oggi Scienza a cura di Federica Sgorbissa.

23 DICEMBRE 2010

STORIE DAL MARE
Dal 18 al 20 novembre 2010 si è tenuta a Dublino, presso il Trinity College, la conferenza "Oceans Past III: Stories from the sea – history of marine animal populations and their exploitation" in conclusione del progetto decennale History of Marine Animal Populations, la componente storica del Census of Marine Life. Oceans Past III: Stories from the sea – history of marine animal populations and their exploitation

Il progetto ha coinvolto più di 100 storici, ecologi, scienziati della pesca, biologi e archeologi dal Canada alla Nuova Zelanda, passando per il Mediterraneo, per cercare di rispondere alle domande: com’erano i mari nel passato, prima dell’attuale sfruttamento eccessivo, dei cambiamenti climatici, dell’inquinamento? È possibile ricostruire la storiadel mare, e che importanza può avere oggi per le attività umane?
Il messaggio che è emerso in questa tre giorni dedicata all’ecologia storica dei mari, cui hanno partecipato circa 200 ricercatori da tutto il mondo in un’atmosfera decisamente informale, è che sì, si può, ed è essenziale per l’attuale gestione e conservazione degli ecosistemi marini.
La crisi della pesca è un fenomeno globale. Si pesca sempre meno, e molte specie (spesso di elevato valore commerciale, si pensi al tonno rosso) sono sovra sfruttate e stanno scomparendo da aree in cui si pescavano solo pochi decenni fa. Dal 1990 la produzione alieutica mondiale è ferma sotto i 100 milioni di tonnellate l’anno, malgrado l’aumentata efficienza dei pescherecci e l’ingresso in aree un tempo inaccessibili. Semplicemente il mare non può produrre più di così.
La storia ci dimostra come la guerra sia un ottimo manager dei mari. Lo aveva già osservato un secolo fa Umberto d’Ancona, professore dell’Università di Padova e fondatore della stazione idrobiologica di Chioggia. Raccolse e analizzò i dati di cattura dei maggiori porti dell’Alto Adriatico (Venezia, Fiume e Trieste) a partire dal 1905 fino a dopo la seconda Guerra. Sulla base di queste statistiche valutò l’andamento delle catture prima e dopo il fermo bellico conseguente i due conflitti mondiali. I pesci cartilaginei (squali e razze), tipici predatori apicali, erano aumentati grazie al minor sfruttamento ed alla ridotta cattura delle specie di cui si alimentavano, le quali invece erano meno abbondanti per via dell’aumentata predazione. Vito Volterra (di cui ricorre quest’anno il 150° anniversario della nascita), eminente matematico e genero di D’Ancona, ne usò gli studi nel 1926 per descrivere con formulazioni matematiche la relazione tra prede e predatori. Le sue equazioni, conosciute come equazioni di Lotka-Volterra, sono tuttora alla base della teoria ecologica quantitativa.
Oggi gli scienziati propongono modalità più pacifiche e rivolte alla sostenibilità. Come D’Ancona e Volterra, raccolgono e analizzano documenti storici: cataloghi delle specie compilati dai naturalisti, reperti archeologici, registri delle tasse, dati dei mercati ittici fino ad arrivare ai moderni programmi di monitoraggio delle risorse.
Poul Holm, coordinatore del progetto History of Marine Animal Populations, spiega: "la ricerca storica ci permette di capire quanto l’umanità sia sempre dipesa dalle risorse marine per soddisfare bisogni economici, sociali, alimentari e culturali. Queste conoscenze sono necessarie per gestire gli ecosistemi. Fortunatamente solo poche specie si sono estinte. Gli oceani sono ampi e profondi, e molte specie possono tornare alle abbondanze del passato, se glielo permettiamo. Conoscere com’era la vita nei mari, quindi, ci permette di valutare come saranno gli oceani nel futuro, se li rispettiamo e conserviamo con politiche adeguate."
Fonte: Oggi Scienza a cura di Tomaso Fortibuoni.

21 DICEMBRE 2010

SPECIE ALIENE
Per ridurre il passaggio di specie da un ambiente all’altro i satelliti possono venire utilizzati per identificare e tenere sotto controllo quelle aree ritenute a richio perché frequentate da navi da carico dove vengono effettuati i ricambi dell’acqua di zavorra. Insieme all’acqua di zavorra, che viene fatta entrare attraverso apposite valvole in un compartimento dedicato, vengono ovviamente pescati anche organismi che vivono nell’acqua stessa. Quando l’acqua viene ricambiata, il contenuto viene versato in mare, inquinando quella zona con le specie provenienti da ambienti completamente diversi. Si calcola che 5 miliardi di tonnellate di acqua, contenenti una grande varietà di microrganismi, uova, larve e a volte organismi più grandi, vengano trasportati ogni anno in giro per i mari del mondo, causando danni alle altre specie e a volte introducendo organismi potenzialmente patogeni anche vicino alle coste.
Esiste una convenzione internazionale, che entrerà in vigore solo nel 2013, per il "controllo e la gestione delle acque di zavorra per la prevenzione dei potenziali effetti devastanti". Per assistere gli sforzi che già oggi alcune organizzazioni mettono in atto per affrontare questo problema, l’Agenzia Spaziale Europea ha messo a disposizione dell’Agenzia marittima e idrografica tedesca i dati dei suoi satelliti, per un progetto pilota che ha lo scopo di stimare il rischio ambientale causato dalle acque di zavorra.
Il progetto si concentra sulle zone del Mare del Nord e del Mar Baltico e cerca di determinare la possibilità che una specie aliena abbia di sopravvivere in caso venga liberata insieme all’acqua di zavorra in un ambiente estraneo. Per calcolare il rischio, vengono utilizzati moltissimi parametri diversi, dalla temperatura superficiale del mare, al colore e alla trasparenza dell’acqua ottenuti dal satellite Envisat.
Il colore dell’acqua, per esempio, fornisce informazioni sul contenuto di alghe atraverso la concentrazione di clorofilla. Non solo: aree con un alto contenuto di alghe possono fornire nutrimento a molte delle specie introdotte, mentre acque molto chiare e trasparenti sono un indice di basso contenuto organico e quindi di una minore possibilità di sopravvivenza.
L’influenza della temperatura è banale: organismi abituati a vivere in acque calde si troveranno male se introdotti in acque molto più fredde e viceversa.
Le informazioni ottenute da questo progetto saranno utilizzate per indicare quali sono le zone di mare dove non è opportuno fare ricambio di acqua per limitare i danni dall’introduzione di specie aliene e, in generale, per mettere a punto delle strategie per la gestione dell’acqua di zavorra. Fonte: Oggi Scienza a cura di Simona Cerrato.

ACIDIFICAZIONE DEGLI OCEANI: COME CAMBIA IL CICLO DELL'AZOTO
L'aumento dell'acidità delle acque degli oceani può cambiare in modo fondamentale il ciclo dell'azoto: è quanto sostengono in un articolo pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) i ricercatori dell'Università delle Hawaii guidati da Michael Beman.
Com'è noto l'azoto è uno dei nutrienti più importanti delle acque del globo: da esso dipendono per la sintesi delle proteine e di altri importanti composti molti organismi, dai più minuscoli alle balene.
È un fatto altrettanto noto che molte forme di microrganismi utilizzano anche composti dello stesso azoto come fonte di energia. Tra questi vi sono gli ossidatori dell'ammoniaca che svolgono un ruolo cruciale nel determinare quali forme di azoto siano presenti nell'oceano, influenzando indirettamente il ciclo di vita di molti organismi marini.
L'ossidazione dell'ammoniaca è il primo passo del processo di nitrificazione, una delle principali componenti della produzione del ossido di diazoto, un gas serra e che passa dalle acque del mare all'atmosfera (le emissioni oceaniche di questo composto sono seconde solo a quelle dei suoli).
Posto che gli altri parametri restino costanti, una diminuzione dei tassi di nitrificazione può perciò ridurre le emissioni di ossido di diazoto in atmosfera.
In questa nuova ricerca, Beman e colleghi hanno analizzato la risposta dei tassi di ossidazione dell'ammoniaca al processo di acidificazione delle acque. Dai dati raccolti, è risultato un rapporto di proporzionalità inversa assai simile in diverse parti del globo.
A un decremento del pH delle acque dell'oceano di 0,1 corrisponde una diminuzione delle emissioni di ossido di diazoto confrontabile con quella di tutte le emissioni dovute al consumo di combustibili fossili e alle attività industriali.
Un elemento che dovrebbe mettere in guardia è costituito dal fatto che le emissioni di ossido di diazoto dovute alla nitrificazione possono essere alterate da altre forme di cambiamenti ambientali, come un aumento della deposizione di azoto nell'oceano o la perdita di ossigeno di alcune aree cruciali.
"L'acidificazione dell'oceano avrà diversi effetti sugli ecosistemi marini, la maggior parte dei quali sono tuttora ignoti", ha commentato David Garrison, direttore del Biological Oceanography Program della National Science Foundation (NSF) che ha finanziato la ricerca. Fonte: Le Scienze.

IL MELTING POT DELL'ARTICO
La chiusura dell'istmo di Panama ha consentito il Grande Interscambio Biotico Americano, il mescolamento tra la fauna boreale dell'America settentrionale e quella australe dell'America Latina. Nei prossimi decenni potremmo assistere ad un fenomeno simile, dovuto allo scioglimento dei ghiacci del Polo Nord, ma con conseguenze molto più serie sulla diversità animale.
Al termine di questo secolo, infatti, durante le estati i mari artici saranno completamente liberi dai ghiacci, favorendo il possibile incontro di specie che fino ad ora sono state tenute separate dall'attuale barriera geografica. Secondo un articolo pubblicato sulla rivista Nature, questo futuro rimescolamento delle faune di animali marini, che si sono originate e adattate in contesti geografici e climatici differenti, potrebbe avere conseguenze disastrose sulla biodiversità. Infatti, è possibile che numerose specie affini, una volta entrare in contatto, possano ibridare, con il conseguente rimescolamento dei pool genici. E questa eventualità sarebbe terribile soprattutto per le specie più rare e minacciate di estizione, che finirebbero per estinguersi, venendo 'assorbite' nelle specie più comuni con cui si riprodurranno.
Lo studio fornisce anche alcuni esempi di questi casi di interbreeding, alcuni già parzialmente documentati e ormai sempre più frequenti: ben 22 specie tra orsi, foche e cetacei potrebbero andare incontro a questo destino.
Solitamente, concludono i ricercatori, il rimescolamento genico rafforza lo stato delle popolazioni naturali, incrementando la diversità genetica all'interno delle popolazioni. Anche l'ibridazione tra specie diverse a volte potrebbe rappresentare una forza positiva in grado di originare novità evolutive e favorire la sopravvivenza in determinati contesti ambientali. In alcuni, però, le conseguenze dell'ibridazione potrebbero essere drammatiche.
Qui una galleria fotografica delle specie coinvolte. Fonte: Pikaia, a cura di Andrea Romano.

20 DICEMBRE 2010

LE DELUSIONI DEI PESCI
Le femmine di Astatotilapia burtoni, un pesce africano di acqua dolce appartenente alla famiglia dei ciclidi, sono sensibili al fascino dei vincenti, tanto da provare una sorta di fastidio se a perdere è il proprio partner. A suggerirlo sono alcuni biologi dell'Università di Stanford coordinati da Russell Fernald. I risultati sono stati pubblicati su Pnas.
Nell’esperimento una femmina veniva posta di fronte alla scelta tra due potenziali compagni; il fortunato, poi, veniva fatto duellare con il rivale davanti agli occhi della nuova compagna. I biologi hanno quindi monitorato le reazioni della femmina a livello cerebrale, registrando le variazioni nell'espressione di alcuni specifici geni. In particolare, si sono concentrati sulle aree del cervello responsabili delle interazioni sociali nei vertebrati, che insieme vengono chiamate “social brain network”.
Il risultato è stato sorprendente: a seconda dell'esito del duello, nella femmina si attivavano regioni differenti. Se il “suo” maschio vinceva, si accendevano le aree legate all’istinto riproduttivo. Nel caso in cui il compagno usciva sconfitto dal confronto, invece, venivano espressi i geni del setto laterale, la regione del cervello che normalmente si attiva in situazioni di ansia o di fastidio.
L’esperimento ha permesso così di inferire che questi pesci possano provare sensazioni simili a quelle degli esseri umani, senza che sia necessaria una interazione sociale diretta: basta infatti la semplice informazione visiva di un evento negativo a provocare grandi cambiamenti nell'espressione dei geni del cervello. Fonte: Galileonet a cura di di Moreno Colaiacovo.

IL GRANDE FRATELLO DEL MARE
Registare il rumore sotto la superficie del mare per ascoltare delfini, capodogli e balene e valutare quanto il rumore prodotto dalle nostre attività impatti sulla vita acquatica è una delle priorità della UE per il 2012. La Spagna si è mossa per prima.
I laboratori di Bioacustica Applicata (LAB) della Università Politecnica di Barcellona, hanno sviluppato LIDO, acronimo dell’inglese Listening to the Deep Ocean, un progetto di ricerca applicata che consiste in una sistema permanente di idrofoni, collegati a piattaforme sottomarine in tutti gli oceani, in grado di captare e registrare rumori di imbarcazioni, di attività di perforazione del fondo marino e le vocalizzazioni prodotte dai cetacei.
Un sistema capillare di "ascolto", destinato a ampliarsi, per il quale è stato sviluppato uno speciale algoritmo che automaticamente interpreta tutti i segnali che riceve per poi classificarli in tempo reale a seconda della loro origine (biologica o antropica), distinguendo il suono captato per ogni diversa specie. Difatti ogni specie di cetaceo emette un pattern caratteristico di suoni che si distingue dagli altri per frequenza, intensità e timbro.
Con questo database "sonoro" a disposizione per i ricercatori sarà possibile fare delle ipotesi per valutare quanto i rumori incidano sulla vita acquatica e hanno un impatto sulla conservazione degli ecosistemi. Nel caso dei cetacei è accertato che il disturbo acustico sottomarino sia uno dei fattori di minaccia più importanti. La comunicazione sonora per i cetacei, che vivono in un ambiente sconfinato e con scarsa visibilità, è fondamentale per la vita di relazione, le migrazioni e la caccia. Per la loro sopravvivenza è necessario che il senso dell’udito funzioni alla perfezione e che l’ambiente sia il più silenzioso possibile.
LIDO, che ha preso il via nel 2007 sotto la supervisione di Michel Andrè, oggi è composto da un set di 13 idrofoni installati su 10 piattaforme subacquee in tutto il mondo alcune delle quali sono letteralmente appoggiate su altri progetti già avviati; uno è Antares che cerca in fondo al mare i neutrini, particelle subatomiche che si muoverebbero nello spazio senza essere fermati dalla materia. Altre piattaforme sono in Canada dove LIDO sfrutta il supporto del progetto Neptune e a Vilanova i la Geltrù, vicino a Barcellona. LIDO in realtà è oggi un work in progress; sarebbe pronto un accordo con il Giappone per installare 17 piattaforme per monitorare il rischio di terremoti sottomarini nell’arcipelago asiatico.
Secondo i ricercatori che hanno lavorato al progetto, LIDO apre nuove vie nel campo degli studi sulla biologia di queste specie e sarà uno strumento prezioso quando i governi dovranno prendere decisioni per mitigare il rumore prodotto in mare per la salvaguardia di questi animali. Inoltre LIDO è in grado di verificare con una certa accuratezza la correlazione tra i casi di spiaggiamento di alcune specie particolarmente soggette al fenomeno (globicefali, zifi e capodogli) e il rumore e fornire così le prove di una causa diretta.
Al momento la vera innovazione è che LIDO è un sistema del tutto automatizzato, che esclude i ricercatori dal dover passare mesi o anni a fare le analisi o a scartare tutti i dati inutili. Inoltre, nell’epoca del web 2.0 e della condivisione globale di contenuti, i risultati delle analisi e i segnali acustici sono disponibili gratuitamente sul sito.
Il lavoro di LAB si è concluso con la preparazione di un manuale con consigli pratici per la gestione dell’inquinamento acustico sottomarino come richiesto dal Ministero dell’ambiente Spagnolo. Il manuale rappresenta certamente un primo passo verso una corretta gestione delle risorse marine nei mari spagnoli, in particolar modo in Mediterraneo: qui il traffico marittimo è in continuo aumento (220 mila imbarcazioni ogni anno transitano nel solo Santuario dei Cetacei) e questo comporta più rumore e più inquinamento.
È già al lavoro un team di esperti, uno dei quali è lo stesso Michel Andrè, per stabilire quali misure di mitigazione o di prevenzione attuare. L’idea di LAB è quella di progettare e creare un network di sistemi d’allarme, composti da dispositivi come boe o robot sottomarini che, in qualche modo, potrebbero avvertire i cetacei che si stanno muovendo in quelle zone identificate da LIDO e ritenute pericolose perché troppo rumorose. Fonte: Oggi Scienza a cura di Mauro Colla.

18 DICEMBRE 2010

GREEN SI È COMPLETAMENTE RISTABILITA
Green, la rarissima Chelonia mydas, una specie ad alto rischio di estinzione nella lista delle specie minacciate ritrovata sulla spiaggia di Marritza (AG) sembra non voler lasciare le acque cristalline che circondano l’Isola dell’Asinara.
Dopo una riabilitazione di oltre un anno Green era stata liberata lo scorso settembre dopo essere stata trovata in pessime condizioni, stremata e incapace di muoversi, con un arto imbrigliato e maciullato da una lenza penetrata fino all'osso.
I suoi soccorritori avevano chiamato il Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale di Sassari che ha provveduto a portare la tartaruga verde al Centro Recupero Animali Marini del CTS (Centro Turistico Studentesco e Giovanile) e del Parco Nazionale dell’Asinara. Qui l’animale è stato sottoposto ad un intervento per l’applicazione di una sonda esofago–stomica, in quanto, nonostante si alimentasse autonomamente ed esclusivamente di calamari, essendo erbivora e rifiutando un alimentazione a base di vegetali, perdeva regolarmente peso. Ora Green sta bene, nuota libera nelle acque al largo dell’Asinara e pare essersi così affezionata tanto da non volerle abbandonare più.
La tartaruga verde infatti vive tipicamente nei mari caldi e la sua presenza nel Mediterraneo è limitata alla parte più orientale del bacino, vicino le coste turche, cipriote ed egiziane.
"Tra le tartarughe marine la Chelonia mydas è una delle più compromesse, in modo particolare nel Mare Nostrum dove sono pochissime le segnalazioni e i luoghi di nidificazione. Perciò il fatto che Green abbia scelto di rimanere nelle nostre acque è certamente un segnale positivo" dichiara Laura Pireddu, Responsabile del Centro gestito dal CTS. "La tartaruga verde è stata a lungo cacciata per la sua carne, le sue uova e il suo carapace e poiché il suo unico predatore naturale è lo squalo, è soltanto l'uomo a metterne a rischio l'esistenza".
Chi comunque pensa che le tartarughe marine siano degli animali lenti deve ricredersi. Ne è la testimonianza il viaggio compiuto da Polly la Caretta caretta liberata insieme a Green a lo scorso settembre. Con un pinna in meno, amputata a causa dei gravi morsi di un predatore, la tartaruga Polly dove essersi inizialmente diretta verso la Spagna ha deciso poi di cambiare rotta e di puntare dritta verso il nord Africa. Nonostante la grave menomazione Polly si trova adesso nelle acque della Tunisia decidendo la prossima tappa del suo lungo viaggio nel Mediterraneo. Anche Polly è monitorata grazie ad un apparecchio satellitare finanziato dall’Ente Parco dell’Asinara posizionato sul carapace, che ne sta permettendo di seguire i suoi spostamenti e la profondità raggiunta, studiando i comportamenti in modo da raccogliere dati sulla vita delle tartarughe e proteggerle sempre meglio. Fonte: Aqva.

UN NUOVO MICRORGANISMO PATOGENO DELLE BRANCHIE
Un nuovo microrganismo patogeno è stato isolato dalle branchie dei salmoni. Le malattie delle branchie nei salmoni allevati causano gravi lesioni, e possono persino portare alla morte una consistente percentuale di pesci.
Ora uno studio basato su indagini istologiche tradizionali e nuove tecniche di microbiologia molecolare ha permesso di identificare un nuovo microrganismo, ancora senza nome, associato ad altri gia descritti come Desmozoon lepeophtherii e Ca. Pisciclamydia salmonis, che si aggiungono a Neoparamoeba perurans, quest'ultimo di recente scoperta. Fonte: Norwegian School of Veterinary Science. Pubblicata su fis.com.

17 DICEMBRE 2010

LA CINA ARRIVA ALL'ARTICO...E GLI ORSI POLARI?
Non sappiamo ancora, come dicono alcuni climatologi, se la calotta polare sarà davvero ridotta al minimo entro il 2013, ma di certo la Cina non attende. L'apertura della rotta artica avvicinerebbe i cinesi i di 7.400 km all'Europa e al Nord America, facilitando enormemente le rotte commerciali e consentendo anche un notevole risparmio di carburante. E infatti la China National Petroleum Corp. (CNPC) ha firmato un accordo a lungo termine con la compagnia russa più importante per quanto riguarda le spedizioni di petrolio e gas attraverso l'Artico, la Sovcomflot (SCF). Non solo, i Cinesi stanno costruendo enormi rompighiaccio in attesa della nuova via artica.
Ma se la Cina e altri stati fremono, non accade altrettando per gli orsi polari, infatti sono a rischio estinzione per il "semplice" fatto che è a rischio il loro habitat. La NASA nei giorni scorsi ha i divulgato i dati climatici per il 2010 (vedere news del 14 dicembre) che hanno sostanzialmente confermato il trend attuale, ovvero quest'anno meteorologico, conclusosi il 30 novembre, è stato il più caldo degli ultimi 130 anni.
Science ha inserito "i cambiamenti climatici" tra le migliori 10 scoperte degli ultimi 10 anni. Per 40 anni il mondo, preoccupato dagli allarmi sul riscaldamento globale, si è posto queste tre domande: il pianeta si sta veramente riscaldando? Se è così, le attività antropiche sono realmente responsabili? E se, di nuovo, è così, possiamo contenere questo aumento delle temperature? Finalmente le risposte sono arrivate grazie agli sforzi continui compiuti dai climatologi in questi ultimi dieci anni. E sono, nell’ordine: sì, sì, no.

UNA NUOVA COLONIA DI VERMI TUBICOLI
Siboglinidae
Un team di studio guidato da Robert Ballard ha scoperto a largo di Cipro, presso l'Eratosthenes Seamount, ad una profondità compresa tra 900 e 1.200 metri diverse colonie di vermi tubicoli in simbiosi con batteri chemiosintetici. Le colonie risultano essere popolate anche da altri invertebrati come coralli di profondità, ricci di mare, granche e altri innumerevoli organismi.
La scoperta risale all'estate scorsa ed è avvenuta grazie alle ricerche dell'equipaggio della nave E/V Nautilus, collegata 24 ore al giornoi alle rete internet. Alcuni ricercatori, di tre istituti (URI, la University of New Hampshire, e il Woods Hole Oceanographic Institution) che partecipavano al progetto denominato "Doctors on Cal Programl", hanno quindi assistito in diretta alla scoperta e hanno classificato la nuova specie come appartenente al genere Siboglinidae.
Il progetto "Doctors on Cal Programl" è stato creato da Ballard della University of Rhode Island, in collaborazione con il National Geographic Emerging Explorer. Fonte: University of Rhode Island. Tubeworms colony discovered off Cyprus.

16 DICEMBRE 2010

UN ANTICO DELFINO DALLA TESTA A PALLA
Un delfino preistorico con la testa a forma di palloncino e il muso a spatola, vissuto circa due milioni e mezzo di anni fa: è la nuova specie scoperta grazie a un fossile finito nella rete di una barca da pesca nel Mare del Nord. È stato battezzato Platalearostrum hoekmani, dal nome del pescatore olandese che ha trainato a riva il reperto, Albert Hoekman.
Lungo fino a sei metri, con il suo muso corto e la fronte alta e sporgente l'animale somigliava per forma e dimensioni ai moderni globicefali, spiega Klaas Post, curatore onorario del Museo di Storia Naturale di Rotterdam e autore della ricerca che descrive la nuova specie. La testa del fossile però era molto più bulbosa.
Post e il suo collega Erwin Komapnje ipotizzano quindi che il delfino fosse un antenato diretto o almeno un parente stretto dei globicefali; e che, come loro, usasse la grossa fronte per l'ecolocazione, il sonar naturale che permette ai delfini e ad alcune specie di balene di navigare in condizioni di scarsa visibilità.
"Platalearostrum sembra il precursore di questa caratteristica", dice Post, "che poi i globicefali hanno sviluppato in maniera particolare".
La nuova specie è descritta nell'edizione 2010 di Deinsea, una rivista olandese a cadenza annuale. Il fossile è oggi esposto al Museo di Storia Naturale di Rotterdam. Fonte: National Geographic.

SEMPRE PIÙ MEDUSE
Uno studio del Centro Oceanografico delle Baleari che fa capo dell’Instituto Español de Oceanografía (IEO) , pubblicato sulla rivista Biology Letters, ha evidenziato che la medusa Pelagia noctiluca è presente in Atlantico per periodi di tempo decisamente più lunghi rispetto al passato.
“Dal 2002 la presenza di questi organismi nell’Atlantico nord orientale è maggiore durante l’inverno - spiega María Luz Fernández de Puelles, autrice dello studio - Appaiono molto prima e tendono a trattenersi di più”.
Lo studio copre ben 50 anni di analisi e dimostra che la Noctiluca è presente in diverse zone del Mediterraneo occidentale, comprese le Baleari, e sopratutto durante l’autunno e l’inverno 2007 e la primavera del 2010. L’aumento delle meduse ha gravi conseguenze per il settore ittico, l’acquacoltura e il turismo e tende ad alterare drasticamente la struttura trofica degli ecosistemi marini.

PESCA SPORTIVA: GALAN, DECRETO PER CONOSCERE IL NUMERO DEI PESCATORI
"Si tratta di un provvedimento snello, per conoscere i pescatori, avere una prima base di informazioni su dove e come si pratica la pesca ricreativa in mare. Non si tratta della licenza di pesca, vogliamo conoscere, per dare dignità a questa attività del tempo libero praticata dagli amanti del mare". Così il ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Giancarlo Galan, illustra il Decreto finalizzato a promuovere la rilevazione della consistenza della pesca sportiva e ricreativa in mare alla stampa, alle associazioni della pesca sportiva e ricreativa e alle associazioni della pesca professionale.
Il ministro ha poi evidenziato i contenuti del decreto ricordando che si può comunicare il proprio stato di pescatore sportivo-ricreativo in mare direttamente sul sito dedicato del MIPAAF o all'autorita' marittima. La comunicazione prevede di fornire alcune informazioni molto semplici, le generalità, il tipo di pesca praticato, le Regioni in cui si pratica questa attività. L'attestato della avvenuta comunicazione funzionerà da titolo per l'esercizio della pesca. Chi non avrà fatto la comunicazione, se soggetto a controlli, dovrà svolgere gli adempimenti previsti entro dieci giorni per non incorrere in sanzioni. "Inizia una fase nuova per la pesca non professionale", ha continuato Galan, "in cui dobbiamo inventare un sistema di regole coerenti con le necessità di tutela degli ecosistemi marini, così come si fa con la pesca professionale. Regolare la pesca sportiva/ricreativa significa generare grandi opportunità di integrazione con il turismo, con l'uso ricreativo del mare. Conoscendone le dimensioni sarà anche possibile richiedere la giusta attenzione politica per una attività che ha valori culturali ed etici ma anche forti contenuti economici ed occupazionali", ha concluso il ministro. Fonte: Agi News.

15 DICEMBRE 2010

BALENOTTERE, CAMPIONESSE IN EFFICENZA
Ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. È la filosofia della balenottera azzurra, che nelle sue immersioni non rimane sott’acqua per più di 15 minuti. In questo modo limita la quantità di energia spesa per nuotare e, al contempo, ingoia enormi bocconi di crostacei. Lo si legge sul Journal of Experimental Biology in uno studio condotto da Bob Shadwick e Jeremy Goldbogen, ricercatori alla University of British Columbia, in Canada.
La balenottera azzurra (Balaenoptera musculus) si nutre di krill, piccoli crostacei che vivono in banchi. Li cattura durante le immersioni, che raramente superano il quarto d'ora sebbene le immense riserve di ossigeno gli permetterebbero di rimanere sott’acqua molto più a lungo. Per spiegare questo fatto, i ricercatori parlano di efficienza energetica: immergendosi per poco tempo, le balenottere consumano poco, riuscendo a conservare la maggior parte dell’energia ricavata dal cibo.
Sino a oggi, fare un bilancio energetico delle attività del cetaceo era un’impresa, sia per la difficoltà di studiare un animale schivo, sia per la mancanza di un’attrezzatura adatta a raccogliere dati. Per il loro studio, i ricercatori canadesi si sono affidati a un gruppo che da anni raccoglie dati sulla biologia dei cetacei utilizzando strumenti all’avanguardia. Attraverso idrofoni, rilevatori di pressione e accelerometri, i ricercatori hanno calcolato la velocità delle balenottere durante le immersioni e il consumo energetico della “caccia”. Poi, studiando la morfologia della bocca e misurando le ossa di esemplari conservati nei musei, sono stati stimati il volume d’acqua e il numero di crostacei che un cetaceo può ingoiare.
Si è cosi scoperto che, grazie alla sua bocca gigantesca, la balenottera può ottenere da un singolo boccone quasi due milioni di KJ (kilojoule) di energia. Considerando che in ogni immersione la balenottera mangia sino a sei volte, i suoi pasti gli forniscono novanta volte l’energia spesa nel nuoto. In questo modo, riescirebbe a fare scorta per i momenti più critici. Fonte: Galileonet.

ANIMALI, NON TUTTO È PERDUTO
Secondo l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) che redige ogni anno la famosa Lista Rossa delle specie in pericolo, i vertebrati sono in fore declino. Negli ultimi decenni molte specie sono diventate a rischio di estinzione e molti habitat si sono degradati a causa delle attività umane. Questo impoverimento della natura ha degli effetti non solo sulla natura stessa ma anche, come conseguenza più o meno diretta, sugli umani e sulle loro attività economiche. Una natura più povera significa anche un’umanità più povera.
Gli esperti concordano: la situazione è grave. Tuttavia potrebbe essere peggiore. Un recente studio firmato da più di centocinquanta ricercatori da tutti i paesi del mondo sostiene, infatti, che azioni di conservazione, come l’espansione delle aree protette o l’adozione di legislazioni appropriate, sono riuscite a fermare la progressiva scomparsa di molte specie.
I ricercatori hanno usato i dati relativi a 25.780 specie di vertebrati inserite dall’IUCN nella Lista Rossa. La Lista Rossa è riconosciuta a livello internazionale come lo standard per quanto riguarda il pericolo di estinzione delle specie: ci sono otto categorie che vanno dalla situazione normale fino all’estinzione passando per "minacciato", "gravemente minaccaito", "estinta in natura". Tutti i dati sono elaborati con procedure trasparenti e sono liberamente a disposizione di tutti in modo che possano essere migliorati e integrati.
Nella Lista Rossa le specie di vertebrati oggi classificate come “minacciate” ammontano a circa un quinto del totale, dal 13% degli uccelli al 41% degli anfibi, e sono purtroppo in aumento. In media ogni anno 52 specie di mammiferi, uccelli e anfibi vengono spostati verso una categoria più vicina all’estinzione. Anche se i vertebrati rappresentano solo il 3% di tutte le specie viventi, si trovano in tutti gli ambienti e hanno un ruolo importante negli ecosistemi e una grande importanza economica e culturale.
Questi dati nascondono l’impatto delle azioni di conservazione: il progressivo peggioramento sarebbe stato superiore di almeno un quinto se niente fosse stato intrapreso per proteggere queste specie. I ricercatori hanno calcolato che, senza le azioni di conservazione, per i mammiferi e gli uccelli ci sarebbe stato un ulteriore 18% di declino. L’impatto è stato purtroppo inferiore sugli anfibi che rimangono tra le categorie più minacciate.
Ovviamente non basta, dicono i ricercatori. Gli sforzi attuali sono insufficienti per bloccare la perdita di biodiversità provocata dall’espansione dell’agricoltura, la deforestazione, lo sfruttamento eccessivo del suolo, la caccia e la pesca indiscriminate e l’introduzione di specie invasive. La conservazione delle specie è una faccenda complessa che dipende da molti fattori e i cui effetti risultano visibili solo dopo decenni di sforzi.
A conclusione del 2010, anno della biodiversità, i ricercatori auspicano maggiori sforzi internazionali e coordinati per fermare il declino della biodiversità globale. Fonte: Oggi Scienza a cura di Simona Cerrato.

14 DICEMBRE 2010

IL 2010 L'ANNO PIÙ CALDO
La NASA, ha reso disponibili i dati riguardanti la temperatura media dell’anno meteorologico che si è concluso il 30 novembre scorso. Secondo i dati appena divulgati, questi 12 mesi sono stati i più caldi degli ultimi 130 anni.
Dal dicembre 2009 a novembre 2010 la temperatura media globale, comprendente sia la temperatura registrata sulle terre emerse che sugli oceani, è stata di 14.65°C. Ciò significa un innalzamento di 0.65°C rispetto alla media del periodo 1951 – 1980, lasso di tempo normalmente utilizzato dagli scienziati per effettuare i confronti. Rispetto ai al 2005, ovvero il periodo più caldo registrato finora, l’innalzamento è meno contenuto, anche se sensibile: 0.12°C (14.65°C contro 14.53°C).
Uno dei dati più interessanti che si possono trovare tra quelli rilasciati, riguarda lo scorporo dei dati che riguardano solamente le terre emerse. In questo caso la temperatura media è stata 14.85°C. E nonostante l’ondata di freddo che ha colpito buona parte d’Europa durante lo scorso novembre, si tratta comunque del novembre più caldo degli ultimi 130 anni secondo quanto affermato dal Goddard Institute for Space Studies della NASA: quasi un grado centigrado (0.96°C) rispetto al periodo 1951 – 1980.

13 DICEMBRE 2010

OVERFISHING
All'interno dell'edificio del Consiglio Europeo i Ministri per la Oesca dell'UE stanno negoziando le quote per il 2011. Fino a oggi l'Unione europea ha drammaticamente fallito nel gestire le attività di pesca. Invece di eliminare gli ultimi pesci rimasti, è ora che i nostri Ministri eliminino subito i pescherecci responsabili della distruzione dei nostri mari e pongano fine alla pesca eccessiva.
Alcuni pescherecci della flotta europea possono arrivare a misurare oltre 100 metri di lunghezza e annientare un ecosistema con una sola calata di pesca.
Il novanta per cento degli stock europei per i quali si hanno dati attendibili, è ormai sovrasfruttato, ed è alla luce di questi bei risultati che l'Europa deve rivedere entro il 2012 la propria Politica Comune della Pesca. È chiaro che la riforma in corso dovrà puntare al recupero delle risorse ittiche e assicurare un buono stato di salute a tutto l'ecosistema marino.
Solo così, sarà possibile garantire un futuro certo alla pesca e a tutti coloro che da essa dipendono. La ricerca scientifica ci conferma che gestendo meglio le nostre risorse domani potremmo pescare di più, distruggendo di meno. La nuova Politica Comune della Pesca deve introdurre sistemi più selettivi e piani per una temporanea riduzione delle catture mirati alla riabilitazione degli stock.
Per salvare i mari e le loro risorse è necessario tutelare il quaranta per cento degli oceani con riserve marine, aree di particolare rilevanza biologica in cui sia vietata ogni forma di prelievo o di contaminazione. Fonte: Greenpeace.

09 DICEMBRE 2010

BATTERI ALL'ARSENICO. UNA BUFALA?
Poche ora fa abbiamo riportato una notizia che secondo la Nasa aveva dell'incredibile (vedere qui sotto) e l'eco che ne è seguito ha ingannato tutti, scienziati, giornalisti e blogger. L'articolo originale da cui abbiamo tratto la news, pubblicato su Science, ipotizzava che il DNA dei batteri denominati GFAJ-1, raccolti presso il Mono Lake, potesse avere uno scheletro non a base di fosfato bensì di arseniato.
Ora la notizia è stata alquanto ridimensionata ed è possibile affermare, secondo molti blogger, che la prestigiosa rivista Science abbia pubblicato un lavoro senza sottoporlo ad una Peer Review rigorosa.
Non resta che attendere ulteriori sviluppi, e attendere ulteriori studi per approfondire nuovamente sia il lavoro pubblicato su Science, ma anche le considerazioni più o meno critiche mosse dalla comunità scientifica.

ACQUA ALL'ARSENICO...
Continua la battaglia nella regione Lazio a causa dell'acqua all'arsenico. Dopo anni di deroghe, e tutto il tempo a disposizione da parte degli enti gestori dell'acqua potabile per adeguarsi alle normative europee, nulla è cambiato.
E ora sta uscendo un nuovo studio che ha portato alla luce nei sedimenti del lago di Vico degli strati contenenti ben 1.5 grammi di arsenico per Kg (le precedenti analisi riportavano 647 mg/Kg), una quantità altissima di chiara origine antropica, e difficilmente giustificabile da coloro che affermano che l'arsenico è totalmente innocuo e di origine naturale. È vero che la zona, essendo di origine vulcanica, presenta livelli di arsenico più alti della media, ma quantità così grandi hanno origine solo ed esclusivamente dalle attività umane. È quanto affermato dai tecnici dell'Università de la Tuscia nei giorni scorsi. I responsabili? La centrale di Civitacvecchia in passato bruciava oli combustibili e riversava circa 275 Kg di arsenico all'anno, che si è poi depositato nell'ambiente di tutto l'alto Lazio.

...E BATTERI ALL'ARSENICO
Qualcuno scopre un batterio, e molte delle nostre conoscenze riguardo alla vita sulla Terra devono essere improvvisamente riviste. Il microrganismo, infatti, infrange una legge basilare della biologia, su cui sembrava reggersi la possibilità della vita stessa: il fosforo è un elemento indispensabile per gli organismi viventi (forma anche il Dna).
Invece il batterio in questione è in grado di prosperare e riprodursi usando l’arsenico - un elemento altamente tossico per quasi tutte le forme di vita - come sostituto del fosforo nelle proprie componenti cellulari. È la prima volta che viene osservata una cosa del genere (finora erano noti microrganismi in grado “solo” di respirare arsenico); normalmente l’arsenico risulta tossico proprio perché il suo comportamento chimico è molto simile a quello del fosforo e si inserisce in alcune reazioni biochimiche, compromettendole.
La scoperta ha una tale portata da spingere il rappresentante del Nasa Science Mission Directorate di Washington a dire che la definizione di vita dovrà essere allargata; in breve, ora sappiamo che una biochimica diversa da (e alternativa a) quella che conosciamo è possibile. Potrebbe quindi esistere sulla Terra, da centinaia di milioni di anni, una sorta di “biosfera ombra” basata sull’arsenico, rimasta finora sconosciuta.
Il microrganismo che riscriverà i libri di biologia è un gammaproteobatterio (GFAJ-1, della famiglia Halomonadaceae), ed è stato individuato dai ricercatori dell'Arizona State University nei sedimenti del Mono Lake, un lago con un’alta concentrazione di arsenico e un’elevata salinità, che si trova nel parco nazionale dello Yosemite (California). Il bacino presenta queste caratteristiche da 50 anni appena: da quando, cioè, è diventato un lago chiuso, completamente isolato da altri corsi d’acqua.
Felisa Wolfe-Simon, geomicrobiologa e Fellow della NASA Astrobiology Research, coordinatrice della ricerca pubblicata su Science, lo ha studiato per mesi. I vari batteri isolati sono stati posti su un terreno di coltura artificiale con un’elevatissima concentrazione di arsenico e in cui venivano via via sottratti i fosfati. I batteri crescevano lo stesso: al 60 per cento della velocità con cui sarebbero cresciuti in presenza di fosforo, e un po’ meno bene, ma comunque “robusti”. Morivano, invece, se venivano privati sia di fosforo sia di arsenico.
Impiegando una sofisticata tecnica di laboratorio, i ricercatori sono stati in grado di conoscere esattamente dove l’arsenico va a sostituire il fosforo all’interno della cellula batterica: nel Dna e nell’Rna, in parti di proteine, grassi e metaboliti, come la molecole dell’energia (Atp) e il glucosio. La quantità totale di arsenico è la stessa che ci aspetterebbe per il fosforo. “Finora si pensava che gli elementi della tavola periodica necessari alla vita fossero sei: carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno, zolfo e fosforo”, ha scritto Wolfe-Simon nell’introduzione allo studio, “e lo scambio uno di questi può avere significati profondi in termini evolutivi”.
“Il rover che sbarcherà sul Pianeta Rosso nel 2018 andrà a perforare la superficie, prelevando campioni che saranno poi analizzati dagli strumenti della sonda”, ha commentato John Robert Brucato, ricercatore dell’Osservatorio astronomico di Arcetri dell’Inaf e presidente della Società italiana di astrobiologia: “Uno di questi strumenti, chiamato Life Master Chip, avrà lo specifico compito di cercare biomolecole. Se l’arsenico può esser compatibile con la vita, bisognerà sviluppare i recettori di conseguenza”. Fonte GalileoNet a cura di Valentina Sereni.

07 DICEMBRE 2010

SQUALI BIANCHI INCAPACI
I giovani di squalo bianco (Carcharodon carcharias) hanno mascelle troppo deboli e morfologicamente inadatte per catturare e uccidere i grandi mammiferi marini. Lo rivela uno studio basato su una simulazione mai realizzata sino ad oggi, ad opera di Toni Ferrara, della University of New South Wales. Lo studio, che ha utilizzato simulazioni 3D e tecniche avanzate di ingegneria, ha analizzato il morso di giovani squali bianche e di squali grigi (Carcharias taurus, Rafinesque, 1810). Il morso di questi ultimi è rapido, adatto alla cattura di prede anche veloci come i pesci. Al contrario, i giovani squali bianchi sono più goffi e meno rapidi, e comunque non potrebbero uccidere i grandi mammiferi marini, che diverranno poi le loro prede preferite in età adulta.
Tale incapacità si spiega, sempre secondo lo studio condotto da Toni Ferrara, con il fatto che gli esemplari più giovani, al di sotto dei tre metri, non sviluppano una mineralizzazione delle cartilagini delle mascelle sufficienti a imprimere un morso potente. Tutto questo ridimensiona la ferocia con la quale i media dipingono lo squalo bianco, che appunto non nasce affatto come superpredatore, anzi i giovani esemplari sono decisamente vulnerabili. Sul sito della UNSW alla pagina di Toni Ferrara è disponibile anche un video in slow motion del morso di uno squalo. L’articolo sarà puibblicato sulla rivista Journal of Biomechanics.

NUOVA SPECIE DI GRANCHIO SCOPERTA IN COSTA RICA
Il biologo Luis Hernandez Lara Rolie della University of Costa Rica ha scoperto nel 2009 una nuova specie di granchio di acque dolci denominato Allacanthos yawi. Ora sono 18 le specie di granchi di acqua dolce del paese. L'esemplare è stato rinvenuto presso Rio Vulcan, a 1.000 metri di altitudine. Allacanthos yawi
Purtroppo la zona sarà interessata dalla costruzione di una diga, dalla quale il Costa Rica conta di ricavare una ulteriore quota di energia per soddisfare il suo crescente bisogno di elettricità, e la conformazione geologica del paese è favorevole alla costruzione di impianti idroelettrici. Le popolazioni indigene sono ovviamente contrarie alla costruzione della diga, a causa dell'enorme impatto ambientale che l'intero progetto determinerà sull'ambiente.
La scoperta è documentata sulla rivista Journal Zootaxa del settembre 2010, quasi un anno più tardi dall'annuncio di Luis Hernandez, ad opera di Célio Magalhaes, uno dei maggiori esperti di granchi del sud e centro America. Il termine yawi deriva dal linguaggio della popolazione Cabécar, e significa "granchio di fiume che vive sotto le rocce".

06 DICEMBRE 2010

SHARK ATTACK 2
È di ieri, domenica 5 dicembre, la notizia che uno squalo ha ucciso una donna tedesca nelle acque di Sharm el Sheikh. A poche ore dalla riapertura delle spiagge imposta dal governo egiziano e durata fino a sabato 3 dicembre. Dopo le tre persone ferite la scorsa settimana (non quattro come inizialmente si temeva) e la caccia allo squalo delle autorità, culminata nella cattura di due squali (un mako e un longimano), il problema si ripropone e questa volta con conseguenze davvero tragiche.
Secondo Mohammed Salem, direttore del South Sinai Conservation, la donna stava nuotando in prossimità della riva di Naama Bay, sul reef corallino antistante le spiagge della località balneare, quando ha subito l’attacco; l’animale le ha amputato un braccio e i soccorsi sono stati inutili. Al momento la stampa non fornisce altre informazioni, ma non sarebbero disponibili immagini utili per identificare l’animale. La stampa italiana, erroneamente, continua a parlare di squali bianchi o di pinna bianca del reef. Il primo praticamente assente da queste acque l’altro non ritenuto letale per l’uomo considerate le dimensioni.
Cosa è successo in questi giorni frenetici? Il 30 novembre due subacquei sono stati attaccati nelle acque di Naama Bay, entrambi hanno riporto gravi ferite, ma sono fuori pericolo. A testimonianza del secondo attacco ci sono delle fotografie scattate qualche minuto prima: i biologi non hanno dubbi. Si tratta di un Carcharhinus longimanus di notevoli dimensioni, che ha iniziato a girare intorno al subacqueo per poi attaccarlo. Il primo dicembre il terzo attacco, a qualche chilometro di distanza dal primo. Lo stesso giorno si è temuto (e dato notizia) di un quarto attacco ma il turista coinvolto si era ferito mentre faceva snorkelling sul reef, urtando una formazione corallina.
Gli avvenimenti in rapida successione hanno convinto il Ministro del Turismo egiziano a dichiarare il divieto di balneazione in tutte le spiagge, a eccezione della riserva naturale di Ras Mohamed che prevede il pagamento di un biglietto l’ingresso (!). E a cercare i colpevoli. Certamente un Carcharhinus longimanus, "purtroppo" non quello catturato nella giornata di sabato. Le fotografie scattate durante il secondo attacco confrontate con l’animale catturato mostrano chiaramente che si tratta di due animali differenti. Senza inutili allarmismi è plausibile pensare che il responsabile degli attacchi sia ancora vivo e si sia avvicinato alla costa, un fatto davvero inusuale per questa specie che ama gli spazi aperti e i fondali profondi.
In Mar Rosso è in corso da 6 anni un progetto di ricerca e di identificazione sul Carcharhinus longimanus (pinna bianca oceanico) e secondo i ricercatori ci sarebbero almeno undici esemplari delle stesse dimensioni e proporzioni dell’animale responsabile del secondo attacco. Questi animali sono stati sempre osservati in aree remote come Brother Islands o Daedalus, lontani quindi da zone frequentate da turisti e mai si sono avvicinati all’uomo. È quindi probabile che gli attacchi di questi giorni siano il risultato del comportamento anomalo di un singolo individuo.
Dovuto a cosa, potrebbe rimanere un mistero, ma è lecito fare delle congetture. Casualità, mancanza di prede a causa dell’overfishing, chi frequenta il Mar Rosso avrà notato durante le immersioni un impoverimento della fauna ittica, fatto sta che la situazione rischia di mettere in crisi l’economia della zona nel periodo natalizio e di promuovere una caccia scellerata che non farà altro che decimare le popolazioni di squali nell’area.
Le statistiche dell’International Shark Attack riportano che nel 2009 ci sono stati 61 attacchi nel mondo, di cui 5 con esito letale. Fonte: Oggi Scienza a cura di Mauro Colla.

04 DICEMBRE 2010

IN AUMENTO NEGLI OCEANI LE DEATH ZONE
Secondo un recente studio dei ricercatori Ove Hoegh-Guldberg e Mark McCormick della James Cook University di Townsvillepone, e pubblicato sulla nota rivista Science, si evince che nelle acque del pianeta sono in aumento le cosidette death zone, particolare questo non di poco conto considerato che la ovvia conseguenza sarebbe l’estinzione di numerose forme di vita. Si tratta di aree con livelli talmente bassi di ossigeno da impedire la sopravvivenza alla quasi totalità delle forme di vita.
Le cause? ii cambiamenti climatici, la pesca eccessiva e gli scarichi di sostanze nutrienti che determinao bloom di alghe e di batteri che consumano tutto l'ossigeno disciolto nell'acqua. Secondo opinione comune fra diversi ricercatori la presenza di zone morte presso le coste è legata all’eccessiva antropizzazione e alla sua attività (scarichi in mare e pesca eccessiva su tutti), mentre i principali fattori che "sterilizzano" gli oceani sarebbero determinati da profonde trasformazioni delle correnti marine.

03 DICEMBRE 2010

BACICCIA E IL TONNO FOGGIANO
Gli inquirenti non aggiungo altro, ma a Foggia è il segreto di Pulcinella. O meglio, il segreto di Baciccia, la maschera genovese del marinaio con la pipetta di legno. Si, perché sembra proprio che le oltre 14.000 scatolette di tonno confezionate ogni giorno nella zona industriale Incoronata, a Foggia, venissero preparate da una società correlata ad un notissimo marchio ligure. Eppure i loro tonni rispondevano al protocollo salva delfini e la loro pubblicità, fino a pochi anni addietro, martellava sui principali network televisivi nazionali.
La loro fidata correlata aveva pure ricevuto negli anni gli aiuti comunitari oltre che apposito marchio CEE. Il tonno da quelle parti non aveva a che fare con il mercurio che può accumularsi nei tessuti dei predatori marini. Aveva più che altro a che fare con la ruggine accumulata non solo nei macchinari ma addirittura nelle celle frigorifere. E che dire di pareti e pavimenti con la muffa?
Questo lo scenario apparso ai Carabinieri del NAS di Foggia comandati dal Luogotenente Biagio Manzella. Una situazione talmente precaria che ha comportato l’immediata sospensione dell’intera attività produttiva specializzata, appunto, nella lavorazione del tonno.
Secondo il NAS la struttura era interessata da “gravi carenze igienico sanitarie e strutturali, priva anche dei minimi requisiti richiesti”. Impianto bloccato ma forse non del tutto sospeso il lavoro dei quindici addetti dell’ azienda foggiana da sei milioni di euro. Le migliorie dettate nell’ordinanza di sospensione amministrativa dovrebbero far lavorare parecchio. Una boccata di ossigeno, per i tonni ancora liberi nel mare e per l’igiene dell’uomo. Fonte: GeaPress.

SHARK ATTACK 1
Ogni (rara) volta che uno squalo attacca un uomo, le parole più frequenti sui media nazionali italiani sono: panico, terrore, rosso sangue, macchina assassina. L’errore più comune poi è quello di sparare a caso nome della specie e fotografia dell’animale. Nessuno dice nulla, ma se un giorno a decidere una finale di Coppa dei Campioni fosse un gol di Cristiano Ronaldo e l’indomani la Gazzetta dello sport titolasse “Kakà sempre più forte” magari con una foto di Ibrahimovic…apriti cielo! Nella comunicazione scientifica tutto sembra essere permesso.
Quello che è accaduto in questi giorni a Sharm el Sheik, nota località balneare sulle rive del Mar Rosso, dove uno squalo ha attaccato in prossimità della riva 4 bagnanti russi, ripropone un campionario di strafalcioni, inesattezze e lacune tipico della nostra stampa. Perchè a volte contattare un esperto costa tempo e fatica.
Il Secolo XIX scrive “Un grosso squalo bianco sta seminando il terrore nelle acque di Sharm el-Sheikh: quattro turisti russi, in due diversi attacchi da parte dello stesso grosso esemplare, sono stati gravemente mutilati mentre facevano il bagno nelle calde acque della notissima località turistica egiziana” ma gli squali bianchi, per chi non lo sa, non amano queste acque troppo calde. Repubblica.it pubblica on line le foto di uno squalo catturato l’altra notte nello spazio d’acqua davanti a Sharm, peccato che sia un giovane Mako e probabilmente quando verrà effettuata l’autopsia per esaminarne il contenuto stomacale troveranno resti di pesci digeriti e forse una targa della Louisiana, come nel celebre capolavoro di Spielberg “Lo squalo”. La Stampa scrive “dilaga il panico a Sharm el-Sheikh: uno squalo bianco di circa due metri e mezzo ha attaccato quattro turisti russi seminando il terrore nel paradiso delle vacanze” mostrando la foto di uno squalo toro! Che sia stato uno squalo bianco ormai non ci sono più dubbi e la notizia viene ripresa da Tg.com di Mediaset.
Il responsabile ve lo mostriamo noi. Perché un team di esperti ha seguito l’animale in questi giorni, fino alla sua cattura.
È un Carcharhinus longimanus, noto anche come pinna bianca oceanico, uno squalo che frequenta solitamente acque profonde ed è abbastanza comune in Mar Rosso mentre è assente in Mediterraneo. È uno squalo veloce, con grande pinne pettorali colorate da una macchia bianca e nel suo nuoto è spesso accompagnato da un folto banco di pesci pilota. In passato si è reso protagonista di attacchi all’uomo, soprattutto in caso di incidenti in mare con superstiti. È rimasto nella storia l’affondamento del Nova Scotia da parte di un sottomarino tedesco: di 1000 persone di equipaggio se ne salvarono solo 192. La maggior parte delle vittime fu attribuita al Carcharhinus longimanus.
Secondo fonti ufficiali lo squalo avrebbe dovuto essere catturato per poi essere liberato in un’area non specificata del canale di Suez in modo da non essere più pericoloso per i bagnanti. Ma questa, a mio parere, era una soluzione davvero improbabile. La storia insegna che quando uno squalo è ritenuto pericoloso (anche per l’economia del turismo) viene cacciato e ucciso. Secondo Tg.com, che riprende una dichiarazione dell’ultima ora del ministro egiziano del Turismo, lo squalo "killer" (ma non ha ucciso nessuno!) sarà esaminato e poi imbalsamato per essere esposto nel centro visitatori del parco marino protetto di Raas Mohammed. Sperando che lo mostrino ai visitatori con il suo nome giusto. Fonte: Oggi Scienza a cura di Mauro Colla.

RAZZIATO IL MARE
Nonostante un numero speciale delle Philosophical Transactions B. sulle estinzioni delle specie marine e un’inchiesta sulla pesca abusiva dei tonni più pregiati, i 35 paesi che dovrebbero “conservarli” hanno scelto di temporeggiare.
La rivista della Royal Society è per abbonati, ma l’introduzione rende l’idea. Il ritmo delle estinzioni accelera e Jeremy Jackson che dirige il Centro per la biodiversità marina della Scripps Institution (video), è stupito dalla velocità alla quale gli oceani sono stati depredati:

l’estinzione di massa in corso, causata dal sovrasfruttamento delle risorse naturali, deve preoccuparci. Mai prima di ora una singola specie, la nostra, ha portato a cambiamenti così profondi… Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi! (citazione del Gattopardo in italiano nel testo).

Un’estinzione annunciata è quella del tonno pinna blu, e il Center for Public Integrity ha pubblicato Looting the Seas, un’inchiesta che documenta gli abusi commessi pur di pescarli finché ce n’è sono ancora. La Commissione Internazionale per la Protezione del Tonno Atlantico (ICCAT), riunita in seduta "speciale" dal 17 al 27 novembre a Parigi e i cui 35 paesi membri devono regolamentarne la pesca, non ne ha tenuto conto. Sostiene che ora i controlli sono più rigorosi, la razzia è diminuita e le specie a rischio si riprenderanno. Forse, ma Looting the Seas e in particolare il capitolo sul Mediterraneo insegna a diffidare delle dichiarazioni ufficiali.

Paradossi
Poco preoccupata, l’ICCAT ha deciso che per il 2011 nell’Atlantico orientale e nel Mediterraneo si potranno pescare 12.900 tonnellate di tonno pinna blu, appena 600 tonnellate in meno di quest’anno; e nell’Atlantico occidentale, 1.750 tonnellate invece di 1.800. Non ha tenuto conto del 30-40% pescato di frodo per un mercato nero stimato attorno a 4 miliardi di dollari all’anno, e dell’invenduto delle precedenti stagioni: circa 10.200 tonnellate di tonni vivi e tenuti in gabbie nel Mediterraneo all’inizio del 2010. Se non c’è mercato, perché stabilire quote così elevate? Come le giustificano i ‘portatori di interessi’ che protestano per un taglio del 4,4% soltanto, come in Sardegna?

Nel Pacifico intanto
La Western and Central Pacific Fisheries Commission che si riunisce a Honolulu dal 6 al 10 dicembre forse dimezzerà le quote come chiede il governo degli Stati Uniti e ricercatori come Steve Palumbi, il genetista delle popolazioni marine all’università di Stanford. Fondatore della band Sogliola Sostenibile (sic), è l’autore e interprete della canzone The Last Fish Left cui consigliamo l’ascolto ai soli amanti del folk-rock. Fonte: Oggi Scienza a cura di Sylvie Coyaud.

TONNO ROSSO AVREMO IL TUO SCALPO
Che il tonno non navighi in buone acque, l’avevo già detto, così come avevo detto che l’ICCAT (International Commission for the conservation of Atlantic Tuna), cioè l’ente preposto alla definizione delle quote di pesca del tonno per il Mediterraneo e l’Atlantico, non sembrava l’attore più affidabile a cui demandare la conservazione della specie.
Cassandra o meno, l’ annus horribiilis del tonno sta continuando: la riunione dei 48 Paesi membri dell’ICCAT tenutasi dal 17 al 27 novembre a Parigi ha deciso solo ridottissimi tagli nelle catture del tonno rosso per il 2011, dando il via libera alla cattura di 12.900 tonnellate di animali, solo 600 tonnellate in meno rispetto a quest’anno.
Secondo le ong Greenpeace e Pew Environment Group questa decisione, insieme al mancato impegno per la realizzazione di santuari naturali nelle zone di riproduzione dei tonni, non lasciano che il 30% di chance alla specie di ricostituire il proprio stock iniziale entro il 2020. Come a dire che siamo davvero al «confine dell’estinzione». E alle quote legali, non dimentichiamolo, si somma un mercato nero della specie pari a 4 miliardi di dollari di guadagno all’anno.
Poco sorprende quindi che Sergi Tudela, responsabile della Campagna Pesca del WWF Mediterraneo, affermi: “Questa misera riduzione delle quote è decisamente insufficiente a garantire una ripresa dello stock del tonno nel Mar Mediterraneo”.
E pensare che solo un mese fa a Nagoya quasi 200 paesi avevano sottoscritto l’impegno a gestire gli stock ittici in modo sostenibile, a definire piani di recupero per tutte le specie marine sovrasfruttate e a ridurre significativamente gli impatti negativi della pesca sulle specie minacciate, il tutto entro il 2020. Ci sarebbe da riderne, se non venisse da piangere.
Amaramente, Michael Hirshfield, scienziato e capo delegazione di Oceana, la principale organizzazione internazionale no profit per la protezione degli oceani, ha dichiarato “è chiaro che i paesi membri non sono venuti a Parigi per sostenere la conservazione della specie. Al mondo che stava a guardare, l’ICCAT ha semplicemente risposto "I can't".
La prossima revisione del piano di recupero e la nuova valutazione dello stato di salute del tonno rosso si svolgerà nel 2012, mentre la prima occasione di portare alla ribalta la ‘questione-tonno’ coincide con la riunione del CITES (Convenzione sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora) nel 2013. Vale forse la pena chiedersi se gli strumenti che sono nel frattempo a disposizione della Comunità internazionale e della UE per proteggere la specie siano sufficientemente robusti o se non si dovrebbe riflettere su possibili alternative.
A chi si chiede com’è possibile tutto ciò, devo rispondere che tonno significa economia, potere, ricavi, posti di lavoro.. a tutti i livelli e che i famosi ‘portatori di interessi’ tirano ognuno dalla propria parte. A ognuno le sue voci ( qui ce n’è una che ci riguarda), certo. Solo il tonno rimane muto, a questo punto forse per sempre. Fonte: Oggi Scienza a cura di Marta Picciulin.

02 DICEMBRE 2010

SE L'ANEDDOTO DIVENTA SCIENZA
Una ricerca condotta da OGS e ISPRA, recentemente pubblicata su PlosOne, mostra come, attraverso aneddoti, dipinti, racconti locali e interviste a pescatori che risalgono all’Ottocento si possano ottenere dati scientificamente validi sui cambiamenti delle popolazioni di pesci nell’Alto Adriatico.

Se volessimo dare un’occhiata al mondo marino al tempo dei nostri nonni per vedere com’era la vita nel Mediterraneo del passato, dovremmo spulciare tra documenti scientifici contenenti numeri e dati veramente affidabili, ma non riusciremmo a superare i 50 anni. Un po’ poco, in effetti, per poter fare valutazioni sull’impatto di eventi antropici nel lungo periodo. Ma di ciò che riguardava la vita delle comunità ittiche di 100 o anche 200 anni fa non rimane altra indicazione se non quella riscontrabile in documenti d’archivio difficili da trattare perché ben lontani dall’essere fonti scientifiche. Si tratta infatti di aneddoti, racconti e interviste fatte ai pescatori, disegni o dipinti.
Come ricavare dunque informazioni (semi)quantitative rilevanti da fonti aneddottiche e descrizioni qualitative fatte dai naturalisti dell’Ottocento sulle comunità ittiche del passato?
Per rispondere a questi interrogativi e scoprire i segreti degli organismi marini in funzione delle implicazioni che tali dati possono avere per le politiche di conservazione, un gruppo di ricercatori dell’Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale (OGS) e dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) ha lavorato ad un progetto mirato alla mesa a punto di un metodo scientifico che rendesse comparabili le fonti di oggi e quelle di ieri. La finalità, dunque, era tradurre in numeri quello che nasceva come racconto o disegno: un’idea che è diventata metodo vero e proprio, condiviso dalla comunità scientifica internazionale.
Punto di partenza sono stati le descrizioni e i rapporti ricavati dagli archivi storici, dai musei o da testi pubblicati a partire dall’Ottocento fino ad oggi; un secondo gruppo di dati è stato ricavato poi dalle statistiche di sbarco dei principali mercati ittici delle aree costiere dell’Alto Adriatico per il periodo tra il 1874 e il 2000. In sostanza è stato ideato un metodo che si basa sull’intercalibrazione delle scale di misura utilizzate con i dati attuali e quella usata per le descrizioni qualitative effettuate nel passato; in questo modo, è stato possibile ottenere dei dati numerici concreti e quindi mettere a confronto la situazione marina degli ultimi duecento anni.
Uno studio complesso, quello di OGS, che ha potuto prendere forma solo dopo un lungo lavoro (di almeno un anno) tra le scartoffie degli archivi, ma dal quale emerge chiaramente come la struttura della comunità ittica dell’Alto Adriatico sia profondamente cambiata negli ultimi due secoli: “Oggi ci sono in proporzione meno squali, razze e pesci di grandi dimensioni che nel passato – precisa Cosimo Solidoro, coordinatore della ricerca realizzata da Tomaso Fortibuoni e Simone Libralato di OGS, insieme a Sasa Raicevich e Otello Giovanardi dell’ISPRA di Chioggia – Di converso, è aumentata la proporzione delle specie di piccole dimensioni e a breve ciclo vitale. Questi cambiamenti si sono manifestati in modo più netto nel secondo dopoguerra, periodo in cui si è assistito a un intensificarsi delle principali forme di disturbo ecologico (pesca, inquinamento, eutrofizzazione e anossie, cambiamenti climatici, ecc). Tuttavia, da questo studio emergono chiari segnali di cambiamento già per il periodo precedente compreso tra il 1800 ed il 1950, quando la forzante principale che agiva sulla comunità ittica era la pesca. Questo importante risultato dimostra come anche la pesca condotta con metodi ‘tradizionali’ (imbarcazioni a vela), in aree principalmente costiere, ma con un numero elevato di natanti abbia modificato le popolazioni marine. Per trovare un sistema non disturbato dall’attività dell’uomo bisogna quindi risalire ad un periodo ancora precedente”. Fonte: Oggi Scienza a cura di Sara Stulle.

VONGOLE CINESI DALLA COREA ALL'ITALIA
La Cina non è tra i paesi previsti dall’Unione Europea per l’importazione di gasteropodi marini, tunicati, echinodermi e molluschi bivalvi. Non rispetterebbero nei loro allevamenti gli standard sanitari previsti per l’Europa.
La Corea del Sud, invece, sarebbe idonea. Come si fa allora ad importare in Europa i cosìddetti frutti di mare? Si prepara una falsa dichiarazione di origine e falsi certificati sanitari ed ecco che le vongole, ben 135 tonnellate, escono dalla Cina, si riciclando in Corea del Sud e si esportano in Italia. Nella fattispecie a due ditte della provincia di Roma e Forlì Cesena.
La cosa non è passata inosservata, però, al controllo dell’ Ufficio delle Dogane di Ancona. Infatti, proprio dal porto di Ancona dovevano transitare ben sei container stracolmi di vongole. I funzionari dell’Ufficio della Dogane, infatti, hanno scoperto la frode. I certificati doganali sottoposti alla verifica delle autorità estere, sono risultati falsi. Fonte: GeaPress.

01 DICEMBRE 2010

GAS IN CAMBIO DI ACQUA INQUINATA
Avrete senz'altro sentito parlare di shale gas, ovvero gas di scisti. Finora si trattava di una tecnologia sviluppata unicamente negli USA, mentre in Europa si è rinunciato a causa dei costi troppo alti.
Come per tutto il resto, anche qui le cose cambiano: i prezzi più alti di petrolio e gas rendono convenienti tecniche dapprima scartate. Così, eccoci pronti a "fratturare" anche l'Europa. Il sistema per estrarre dalle rocce sedimentarie quell'1% di gas che custodiscono si chiama infatti "fracking" (hydraulic fracturing), e in pratica si tratta di indurre le rocce che si trovano intorno al pozzo a spaccarsi e a rilasciare il gas. Il problema è che per il fracking si usano quantità inenarrabili di acqua, più volte, quantitativi pari a laghi di acqua che poi tornerà fuori inquinata. E non solo, insieme all'acqua si pompano sabbia e sostanze chimiche. Il risultato è un disastro ambientale di notevoli proporzioni, anche per le emissioni e la perdita e il consumo dei terreni, oltre che per contaminazione dei suoli e delle falde. Proteste e rivolte dei cittadini sono all'ordine del giorno, nelle zone coinvolte.
Riporta The Ecologist che anche la nostra ora è già suonata. La Halliburton ha effettuato il primo fracking europeo in un pozzo in Polonia, Chevron, Exxon e Shell sono già avanti nell'esplorazione di shale gas in altre zone europee, come Inghilterra, Svezia, Germania, mentre già si candidano l'Olanda, la Spagna e la Danimarca. Ma non è detto: pare che secondo le ultime ricerche geologiche, il nostro gas di scisti sia ancora più difficile e costoso da estrarre di quello americano. Speriamo che cambino idea, allora.
Fonte: Blogosfere.