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20 MAGGIO 2013
C'È ACQUACOLTURA E ACQUACOLTURA
Si è da poco conclusa Slow Fish, l’effervescente manifestazione biennale che si tiene al Porto Antico di Genova. È un'occasione davvero ghiotta per immergersi in tutto quanto è pesce e gastronomia.
Noi segnaliamo l’attenzione che si pone sul tema dell’acquacoltura, l’allevamento dei pesci. L’idea sempre più diffusa tra i consumatori è che la maggior parte del pesce sul mercato sia allevato. Il fatto però di trovare spesso un’offerta uniforme in termini di specie e taglie non significa necessariamente che la selezione sia stata effettuata in un impianto di acquacoltura. Nel nostro Paese questo tipo di pesci soddisfa circa il 30% del consumo (contro il 43% nel mondo) e si tratta soprattutto (70%) di bivalvi, cozze e vongole i cui allevamenti per fortuna sono sostenibili. Il resto è in maggior parte composto da spigole o branzini, orate e trote. Riconoscerli dovrebbe essere facile, è sufficiente leggere le etichette con il nome della specie, il fatto che si tratti di pesce allevato, il nome dello Stato in cui si è svolta la fase finale di allevamento. Spesso ci si chiede se i pesci allevati siano più o meno buoni di quelli catturati e selvaggi, ma tutto dipende dalle specie e dalle modalità di allevamento. Quindi è difficile dare una regola unica, allora meglio non essere timidi e tempestare di domande il pescivendolo o il ristoratore. La curiosità, infatti, è sempre fondamentale, per qualsiasi tipo di acquisto. Sul sito di Slow Fish ci si può documentare ampiamente, noi intanto vi diciamo che tra i pesci allevati è meglio non acquistare il salmone (l’allevamento meno sostenibile), i gamberi tropicali (hanno un forte impatto sugli habitat costieri) e il pangasio. Quest’ultimo, allevato in Vietnam, costa poco e ha poche lische, ma pregiudica gli ecosistemi e non è molto buono, anche se imperversa nelle mense della ristorazione collettiva. Di Carlo Bogliotti. Fonte: SlowFish.
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