Proseguiamo i racconti tratti dai lavori di Paolo Masi. Il suo ultimo libro L’Elefante di Mare, descrive i trascorsi della marineria di Cattolica e Gabicce. Leggendo, è possibile tornare indietro nel tempo e capire come si costruivano le imbarcazioni e come i cantieri dell’epoca, fossero un importante punto di riferimento per tutta la costa Adriatica.
Tempi andati, dove l’uomo era il protagonista principale; nei volti dei personaggi, intravediamo grande sacrificio ma anche grande serenità, i mestieri dell’epoca mettevano in risalto la tempra dei protagonisti, uomini che erano capaci di superare difficoltà inusuali per i nostri tempi, testimoniando passione e amore per il mare.
I racconti sono correlati dalle fotografie di Dorigo Vanzolini, altro importante personaggio del luogo, appassionato di fotografia e detentore di un importante archivio fotografico storico delle genti di mare. Nel libro sono raccolte immagini rappresentative dei mestieri legati al mondo della cantieristica dell’epoca, naturalmente noi ci limitiamo ad inserire i capitoli rappresentativi, con poche immagini, per non togliere il gusto, a chi lo desiderasse, di leggere il libro per intero.
I TAUSANI, GENERAZIONI DI FABBRI FERRAI AL SERVIZIO DELLA MARINERIA, I RETAI, LE LAMPARE A ALTRO ...DI PAOLO MASI
Quarta ed ultima parteIl fabbro Enrico Tausani soprannominato "Rèl", con i figli Colombo e Dante, erano considerati artigiani abilissimi. Nella loro bottega lavoravano come apprendisti Giovanni Vanni, detto "Carnera", e Umberto Giometti.
Di questo personaggio della vecchia Cattolica, si dice che fosse "amante" del vino, ed è divertente raccontare questo simpatico episodio. Un mattino un suo amico passò di fronte alla rete che divideva la sua officina dalla strada e gli disse: "At salùt Rèl".
Quel mattino il fabbro ferraio aveva la luna storta e rispose: "Vat a fedent al cul". E il suo amico: "Rèl aiò un fiasc ad ven ros". "Alora va ben e ven olta". "Rel", a quel tempo, non disponendo dei perfezionati mezzi tecnici odierni, quando doveva costruire un bullone o una parte in ferro, misurava le distanze dell’oggetto con le dita. Nel momento in cui sono messe alla prova, le capacità umane non conoscono limiti alla propria intelligenza. I vecchi pescatori sono concordi nell’affermare che "Rél" non sbagliava mai quello che aveva misurato e creato usando esclusivamente le mani! Allora non esisteva la saldatrice e i pezzi arroventati venivano uniti solo con l'utilizzo della mazza e del martello battuto sopra l’incudine. Era in questo modo che, per l'assemblaggio degli attrezzi, si costruivano sostegni per timoni, chiodi, gabbie vongolare, bulloni e viti, che dovevano essere costruite e filettate a mano. Questa ferramenta soddisfaceva la richiesta di una clientela che andava da Ancona fino a Venezia.
In seguito alla motorizzazione dei motopescherecci veniva lavorata a mano anche la base in ferro, su cui era sistemato il motore. Per le barche in costruzione i maestri d'ascia ordinavano a "Rèl" dei ferri su misura, i quali dovevano essere tirati a coda di rondine, da entrambi i lati, per rendere la coperta più solida.
I RETAI
Le reti per ogni tipo di pesca venivano stese lungo la banchina del porto per consentirne la riparazione e, essendo di cotone, dovevano essere asciugate al sole facendo però attenzione che non prendessero la calda, altrimenti il cotone makò, anche se di prima qualità, andava in pezzi. Le reti, specialmente se erano nuove, venivano tinteggiate con una particolare resina vegetale chiamata al zapèn, perché altrimenti sarebbero marcite. Al mattino c’era sempre la corsa per occupare il posto in cui stenderle. Difatti chi non riusciva a trovare lo spazio necessario per la stesura doveva aspettare il proprio turno, e quindi la mattina inoltrata per la riparazione e l'asciugatura.
LA PESCA TERRIERA
La pesca da terra, dalla spiaggia, era in uso sin da epoche remote, oggi è praticamente scomparsa, a seguito dell'avvento degli stabilimenti balneari e del turismo di massa. Questa pesca veniva effettuata con particolari tipi di reti - cogolli 1, tratta 2 o spuntali, e nasse.
I metodi variavano a seconda delle stagioni, perché nelle basse profondità dei fondali sabbiosi, si alternavano anche le varie specie ittiche. I pescatori si ingegnavano a queste mutevoli situazioni ambientali. In inverno, ad esempio, quando il mare era calmo si usava il cogollo, per la pesca delle anguille. E in primavera venivano calate le nasse, per catturare le seppie che vengono a terra a deporre le uova. Mentre nel periodo estivo quella più in uso era la pesca "dla trata o sal spuntèl", che erano la stessa cosa.
In questa circostanza un cappio della rete veniva legato ad un palo sul bagnasciuga [sic] della spiaggia, subito dopo una lancetta provvedeva a gettare in acqua la rete restante, compiendo un circolo che abbracciava un vasto tratto di mare, e poi tornava a terra con l'altro cappio. A quel punto, non si faceva altro che salpare la rete, tirandola a mano. E il pescato finiva "ti panièr - nei panieri" dei pescatori, sulla spiaggia. Una pesca semplice e efficace.
Il mare a quei tempi era ricco di fauna ittica, perché i pesci non erano disturbati dalla presenza di bagnanti e, sopratutto, dai vari modi di pesca a cui oggi è sottoposto. Nella loro ricerca continua di nutrimento, questi arrivavano sino a pochi centimetri dal bagnasciuga [sic]. Per questa ragione, con la tratta si potevano catturare interi branchi [sic] di cefali, i rigadèn - mormore, bavose, sogliole, branchi [sic] di carlèn 3- un pesce simile al sarago, rombi e non di rado nella rete finivano anche grosse spigole e razze.
Un giorno del 1936, per la gioia di quei fortunati pescatori, fu catturata persino una tartaruga, che subito dopo le immancabili foto ricordo fu rilasciata in mare. Nel 1953, addirittura un pesce luna! Alcuni cittadini, che se lo potevano permettere, si munivano di una rete propria e in estate, quando l'acqua era più calda, i pescatori senza far uso della lancetta entravano in acqua direttamente dalla spiaggia. E siccome i momenti in cui il pescato finiva sul bagnasciuga [sic] erano attimi di viva gioia paesana, "la pesca sla trata - la pesca con la tirata", veniva effettuata soprattutto nei giorni festivi. Gli abitanti di Cattolica e Gabicce, i cattolichini e i gabiccesi, che lo sapevano, si recavano numerosi a spiaggia, per "per dè una men per dare una mano", ma anche perché il pescato, non di rado, finiva generosamente nelle loro mani. Si parla di tempi che vanno dal 1800 e proseguono sino a quelli del 1900, prima, durante e dopo i due conflitti mondiali. Allora si vivevano giorni di povertà, ma anche di estrema dignità e grande generosità.
LA PESCA A LAMPARA
Il mare Adriatico, sebbene molti ignorino questa realtà, è uno dei mari più pescosi al mondo per le grandi quantità di pesce azzurro che solo le sue acque sanno creare. Alla fine degli anni sessanta e all'inizio di quelli settanta del secolo scorso, Cattolica e Gabicce avevano una flotta di 17 motopescherecci armati per la pesca a lampara. Una delle flotte più imponenti sulla costa occidentale del litorale adriatico. La pesca a lampara veniva effettuata nelle notti senza luna, quando il mare era in bonaccia e con l’ausilio di potenti fari, che attiravano i banchi di acciughe e sarde, i sardùn e la sardèla.
Non appena la lampara - a 20, 30 miglia dalla costa - aveva localizzato con un eco scandaglio visivo i banchi di pesce azzurro, i marinai, con rapida maestrìa, mettevano in mare due piccole lance a remi, ognuna delle quali armata di due potenti lampade azionate da un compressore. Le tre imbarcazioni si disponevano a triangolo, ad una distanza che poteva variare dai 70 ai 100 metri, continuando a "far luce" per circa due, tre ore. In questo modo attiravano e univano i branchi [sic] di pesce, e a quel punto si erano formati tre grandi banchi di pesce. Successivamente, remando senza far rumore, le due lance si avvicinavano al motopeschereccio, poi mentre questo e una lancia spegnevano le loro lampade, la terza imbarcazione, al batèl ad centre, il battello di centro, continuava a tenerle accese.
Equipaggio motopeschereccio "Jolly" (pesca a Lampara) Da sinistra: il paròn Francesco Prioli "Baragoglio", Emilio Pratelli, Mariano Ercoles, 1970.Così facendo tratteneva il pesce, che da tre branchi [sic] era stato concentrato in uno, e si trovava ammassato sotto la sua chiglia. Il mestiere degli uomini che manovravano le lance, il battelliere, era fondamentale per ottenere una buona nottata di pesca, ed era cura del comandante scegliere tra il suo equipaggio, composto da circa undici persone, il marinaio più abile.
Una volta che il comandante lo aveva deciso, intorno al battello di centro, veniva calata la rete che aveva una circonferenza di più di cento metri. La responsabilità della pesca a lampara gravava esclusivamente sulla figura carismatica del comandante, al paròn, che doveva essere un vero esperto e "maestro del mare". Prima di tutto al comandante spettava il compito di trovare il banco di pesce, e poi una volta che lo aveva individuato, doveva saper interpretare correttamente il segnale dell'eco scandaglio, la macia - la macchia, e decidere se era il caso di fermare l’imbarcazione per "far luce" in quel luogo. Non interpretare bene il segnale e far luce nel sito sbagliato, significava perdere ore preziose, e l'alba si sarebbe avvicinata sempre di più, restringendo i margini di tempo utili per la buona riuscita della pesca.
E con lo strumento elettronico di quei tempi non era facile. Poi, secondo la corrente presente in quel tratto di mare, cume al cor l’acqua - come scorre la corrente, al paròn doveva decidere il modo corretto per calare la rete. Infine, nei secondi cruciali in cui questa veniva gettata in acqua, la spettava il compito di trovare il banco di pesce, e poi una volta che lo aveva individuato doveva saper interpretare correttamente il segnale dell'eco scandaglio, la macia - la macchia, e decidere se era il caso di fermare l’imbarcazione per "far luce" in quel luogo.
Infine, nei secondi cruciali in cui questa veniva gettata in acqua, la manovra doveva risultare perfetta. Difatti se il circolo fosse stato troppo stretto, parte del branco [sic] di pesce sarebbe rimasto all’esterno della rete, sfuggendo così alla cattura. Se, al contrario, il circolo fosse stato troppo largo, si sarebbe creato un varco nella rete, in cui il pesce azzurro sarebbe fuggito.
Il pioniere e uno dei più valenti paròn della pesca a lampara, fu Virgilio Pozzi (Sbarèn), che comandava il motopeschereccio "Eugenio Pozzi". Tra i comandanti delle lampare e i commercianti che compravano il pesce non correva buon sangue. Di quegli anni è rimasta famosa una battuta, pronunciata da Sbarèn. Virgilio Pozzi apostrofò con queste simpatiche parole un commerciante, che con un dito rovistava in una cassa di pesce per rilevarne le dimensioni. "Veh! Cus guèrd, se i sardùn ià li pium? – Veh! Cosa guardi, se le acciughe hanno le piume?". Le ultime due lampare, appartenenti a quei tempi oramai lontani, i motopescherecci "Mary Cora" e "Eugenio Pozzi", armati per un altro tipo di pesca, sono ancora presenti nel porto di Cattolica.
LA PESCA DELLA SARDA
Questo tipo di pesca era praticata dal mese di aprile fino a settembre e ottobre, mediante reti da posta a tramaglio; all’inizio queste erano costruite in cotone makò, che richiedevano, tuttavia, molto lavoro di manutenzione. Infatti le reti dovevano essere asciugate al sole tutti i giorni e, periodicamente tinte "la tènta", con corteccia di pino chiamata in dialetto "zapèn", questa resina veniva fatta bollire e dava alle reti una colorazione marrone rendendole più resistenti.
In seguito si usò il filo di nylon, più sottile e solido, per cui non era più necessaria una costante manutenzione quotidiana. La maglia della rete doveva essere calibrata a seconda della dimensione del pesce, normalmente la misura andava dai 15 ai 16-16 ½ millimetri per le sarde più grosse. Nei primi mesi della stagione, le barche per catturare i branchi di sarda si spingevano sino a Senigallia e oltre, e alcune restavano anche settimane lontane da Cattolica e Gabicce. Poi si spostavano verso Fano, Pesaro e Rimini, seguendo sempre il branco [sic] del pesce. La quantità di pescato che una barca poteva catturare andava dalle poche cassette nei mesi di magra, sino alle 150-200 a nottata, e ogni cassetta pesava dai dieci ai dodici chili. Le reti venivano posizionate da una profondità di qualche metro fino ad arrivare a 8-10 braccia (16-18 metri). Per trovare il branco [sic] si mettevano in acqua 2-3 reti per un tempo di quindici venti minuti "i pruvèn - i provini". Se il pesce catturato sembrava sufficiente, il capobarca, il paròn, faceva mettere in acqua l’intero calo di reti.
I momenti più pescosi erano il tramonto "al punent" e l’alba; la "caleda dl’elba". A seguito delle incessanti esperienze, alcuni comandanti erano diventati particolarmente abili nell’intuire la velocità del branco [sic] di pesce, delle correnti marine, del vento, la distanza dalla costa, e quindi riuscivano a fare delle pescate più ricche. Il vitto dei pescatori consisteva quasi sempre di sardine e i cosiddetti "sghirz", un pesce poco più piccolo della sarda con tantissime spine, che non aveva mercato, ma molto gustoso al palato.
Le imbarcazioni armate per la pesca alle sarde di Cattolica e Gabicce, nel periodo di maggiore sviluppo, erano circa novanta e si ormeggiavano nel porto canale una di fianco all'altra, per cui passando sulle coperte di questi natanti si riusciva ad andare da una sponda all’altra senza bagnarsi. Quando tutte le imbarcazioni uscivano e il porto rimaneva vuoto, allora i vecchi marinai usavano una frase piena di ironia: "le andè in mer anche i paiòl - sono andati in mare anche i paglioli", cioè il tavolato di coperta. In questo modo, volevano dire che il porto canale non era più attraversabile camminando sulle barche sardellare. Trattandosi di una flotta così numerosa, si ebbe un forte incremento dell’industria conservativa e furono costruite quattro fabbriche che inscatolavano la sarda. A Cattolica, "Arrigoni", "Marabotti", "Adriatica" e "Ampelea". A Gabicce l'Ampelea aveva una succursale più grande che inscatolava esclusivamente tonno. Nel periodo del secondo conflitto mondiale, "i stabilimènt" come venivano chiamati dalla maggior parte del personale femminile che vi lavorava, furono una provvidenziale fonte di sostegno economico per la popolazione dei due paesi.
Soprattutto perché gli uomini più giovani erano impegnati sui vari fronti di guerra. Con lo sviluppo tecnologico della pesca, comparvero le prime lampare, che in una sola notte riuscivano a pescare fino a 1500-2000 cassette di sardine. Decretando così la fine dei tempi dignitosi delle barche sardellare, che furono armate per altri tipi di pesca.
Operai della Fabbrica Conserviera Arrigoni. Cattolica, anni '40. Asta a voce sulla banchina di Cattolica, anni '80.NOTE
1 cogolli, sistema per la pesca dell'anguilla, detto anche cucul; si issava a terra e si disponeva poi lungo costa, parallelamente ad essa, durante la stagione autunnale, OVVERO durante la migrazione stagionale delle anguille.
2 tratta, in italiano sciabica. Si tratta di un sistema di pesca a circuizione; la rete, semicircolare, viene salpata da terra e dopo aver intrappolato in un semicerchio un banco di pesce precedentemente avvistato, viene salpata sempre da terra.
3 carlèn, pesce noto anche come carlino.
Fine ultima parte by Paolo Masi
Chi è Paolo Masi - torna all'articolo
Paolo Masi, nasce a Cattolica il 2 Settembre 1941. Nel 1959 si trasferisce con la propria famiglia a Gabicce Mare dove intraprende l’attività alberghiera lasciatagli in eredità dal padre.
Nel 1958 e 1959 frequenta l’Istituto per Radiotelegrafisti Scuola Professionale Marittima di Rimini, ottenendo il brevetto di Radiotelegrafista. Le sue esperienze in mare iniziano tra la fine degli anni '50 e l’inizio degli anni '60, con immersioni in apnea.
Verso la metà degli anni '60 decide di passare, da autodidatta, alle immersioni con autorespiratore ad aria compressa. Dall’inizio degli anni '70 comincia a viaggiare e ad immergersi nei mari tropicali di tutto mondo, traendone una vasta documentazione cine fotografica. Tuttavia il suo rispetto ed il suo riconoscimento vanno al Mare Adriatico, al quale ha voluto dedicare un libro: Il nostro Mare Adriatico…piccolo…grande mare.
Durante gli anni ha avuto modo di scrivere anche altri interessanti testi, a testimonianza di quello che era la vita di mare dell’epoca.
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