I PESCI DELLE ZONE INTERTIDALI
Alticus kirkii (Gunther, 1868) diffuso lungo le coste rocciose del Mar Rosso. Fotografia: Castronuovo M. Nicola.
L’ambiente intercotidale, ovvero la fascia del litorale compresa tra i livelli della bassa e dell’alta marea, è un ambiente ostico e difficile per molti organismi marini. Si tratta di un ecosistema che demarca il confine tra mare e terra, spesso turbolento a causa del moto ondoso, soggetto a intensa evaporazione durante la stagione calda e conseguenti e notevoli incrementi della salinità. A volte le pozze di marea si prosciugano completamente lasciando il posto a delle piane melmose o fangose, oppure rimane solamente un'intricata selva di alghe e detriti su cui poi pascolano numerosi organismi.
Gli adattamenti degli organismi marini che vivono nelle zone intertidali sono complessi, e se in passato è risultato facile lo studio degli organismi sessili come balanidi e patelle, quello dei pesci, mobili e capaci di nascondersi negli anfratti più reconditi, è risultato sicuramente più complesso. Molti pesci si mimetizzano perfettamente tra le rocce, altri si nascondono tra i sedimenti o la vegetazione, e sono pochi, come il caso di alcuni gobidi, i pesci perfettamente visibili e capaci di passare lunghi periodi sulle piane fangose.
Probabilmente le specie intertidali si sono evolute da altre tipiche del mare aperto, e la filogenesi e la tassonomia, con la presenza o assenza di certe famiglie in certi luoghi piuttosto che in altri, costituisce una sfida intrigante per gli ittiologi che si occupano di questi gruppi.
La definizione che preferiamo adottare in questo articolo è presa dai lavori di Gibson e Yoshiyama, che descrivono le specie intertidali come quelle in grado di trascorrere gran parte della propria esistenza completamente fuori dall’acqua. La zona intertidale rocciosa si presenta altamente produttiva (Leight et al., 1987), ricca di invertebrati e alghe, fortemente variabile nello spazio e nel tempo relativamente ad alcune caratteristiche chimico-fisiche. La temperatura, la salinità e il pH possono variare rapidamente nel tempo, e l’ossigeno può rapidamente esaurirsi a causa dell’attività fotosintetica.
Sopra, la cosidetta "zona nera" della frangia sopralitorale, popolata da cianobatteri (spesso Calothrix), licheni (Verrucaria) e alghe verdi di varie specie. Molto evidente l'azione erosiva delle onde. Fotografia: Castronuovo M. Nicola.
LE SPECIALIZZAZIONI DEI PESCI INTERTIDALI
Molti pesci intertidali mostrano caratteristiche anatomiche simili ai pesci che vivono in acque basse e turbolente. La prima è più evidente caratteristica di questi pesci è la loro dimensione. Raramente superano i 30 cm di lunghezza e in media non superano i 20 cm. E’ proprio grazie alle dimensioni modeste che riescono a occupare anfratti e nascondigli per ripararsi dai predatori. Inoltre le modeste dimensioni permettono di affrontare il moto ondoso ed evitare di essere spazzati via, grazie ad una ridotta esposizione della superficie corporea. In alcuni gruppi di pesci il corpo è inoltre assottigliato (Sticheidi e Folinidi), oppure appiattito (Gobiesocidi e Cottidi). Alcuni Gobidi come il perioftalmo possono sollevarsi sulle pinne pettorali appaiate e spostarsi senza troppi problemi.
In alcuni gruppi altamente specializzati come i Folinidi e gli Sticheidi, le pinne ventrali e pettorali sono ridotte, mentre la dorsale e l’anale sono allungate e spesso unite alla pinna caudale. In alcuni Gobidi e Ciclotteridi le pinne pettorali sono modificate e formano una specie di ventosa.
La pelle delle specie intertidali è molto resistente rispetto a quella dei loro parenti che vivono in acque aperte. Per esempio nei Gobidi le scaglie sono tra loro attaccate molto saldamente, mentre i Blennidi e i Gobiesocidi ne sono privi, infine negli Sticheidi e nei Folinidi sono notevolmente ridotte. Si tratta in tutti i casi di adattamenti atti a prevenire le abrasioni della superficie del corpo, poiché le zone intertidali sono spesso sottoposte all’azione violenta del moto ondoso.
Le specie adattatesi a passare gran parte del tempo in poca acqua e che si rifugiano negli anfratti o sotto le alghe, secernono gran quantità di muco per lubrificarsi e fuggire velocemente in caso di pericolo, ma anche per limitare le perdite di acqua. Muco e cute spessa sono le uniche barriere atte a limitare la perdita di acqua, e sembra non esistano altri meccanismi adatti a prevenirle, poiché esemplari vivi e morti della stessa specie perdono acqua alla stessa velocità. Quindi è il comportamento che impedisce a questi pesci di disidratarsi, con bagni in acqua più o meno frequenti a seconda delle specie. L’umidità dell’ambiente intertidale è fondamentale per la sopravvivenza di molte specie. Alcuni Gobiesocidi possono tollerare sino a 93 ore di emersione con umidità al 90%, mentre se si riduce il tasso relativo di umidità il numero di ore scende rapidamente. I perioftalmi tropicali invece, possono essere considerati degli anfibi, in quanto trascorrono il 90% del loro tempo sulla terraferma.
La vescica natatoria delle specie che rimangono sul fondo delle pozze di marea è ridotta o del tutto assente. Quindi il peso specifico dell’animale risulta superiore a quello dell’acqua, e consente ai pesci di rimanere a contatto con il fondo senza alcun dispendio di energia. Questo però impedisce il nuoto, e infatti molte specie compiono per lo più guizzi e brevi escursioni dai loro rifugi in cerca di cibo.
Un altro problema riguarda non tanto la disponibilità di ossigeno, poiché la sua concentrazione nell’aria è maggiore rispetto a quello disciolto nell’acqua. Piuttosto la difficoltà risiede nel meccanismo di assorbimento. Le branchie dei pesci tendono ad essiccarsi a contatto con l’aria, le lamelle branchiali sono talmente fini e sottili che necessitano continuamente di essere bagnate. Ecco alllora che alcune specie sono corse ai ripari. I perioftalmi per esempio hanno filamenti branchiali corti e spessi, e adatti ad assorbire ossigeno dall’atmosfera. Altre specie invece hanno la superficie del corpo e della mucosa boccale e faringea fortemente vascolarizzata e quindi adatta a catturae l’ossigeno con maggior efficienza. E’ stato appurato che il metabolismo anaerobico (attraverso la misurazione della concentrazione di acido lattico) non aumenta nelle specie intertidali, per cui la quantità di ossigeno che assorbono dall’aria è uguale alla quantità assorbita in acqua. Più problematico il caso delle specie che rimangono nelle pozze di marea lontano dalla linea d’acqua. Di giorno le piante con la fotosintesi forniscono ossigeno in quantità, ma di notte la sua concentrazione può scendere a livelli critici. E così alcune specie, escono con il capo fuori dall’acqua e arieggiano le branchie. Oppure si spostano su substrati emersi.
Ancora Alticus kirkii (Gunther, 1868). Questo pesce ha la capacità di far rientrare la cornea, e adattare perfettamente l'occhio ad una visione terrestre. In acqua la cornea torna al suo posto per avere una perfetta visione subacquea. Fotografia: Castronuovo M. Nicola.
Box 1 La cattura dei pesci della zona intertidale: come accennato in precedenza, molte specie passano il periodo della bassa marea ben nasconti tra gli anfratti delle rocce e vederli risulta alquanto difficile. Per la cattura allora si utilizzano diverse tecniche, tra cui, purtroppo, anche quelle chimiche. Il rotenone è un composto tossico che si ricava da diverse leguminose di origine africana, americana e asiatica. Agisce per vasocostrizione. Nel caso delle branchie dei pesci riduce rapidamente l’uptake dell’ossigeno e questi escono annaspando dai loro rifugi. Se la quantità di rotenone utilizzata è elevata, si evidenzieranno delle lesioni alle branchie che risulteranno fatali. La sostanza (commercializzata con il nome di Chem fish e Pronoxfish), molto tossica gia anche alla concentrazione di 5 ppm, per crostacei, anfibi e molti invertebrati, può essere neutralizzata con permanganato di potassio. Esistono poi altri metodi di cattura, alcuni adatta per certe specie piuttosto che per altre. Questi metodi si dividono in attivi e passivi, e tra questi ricordiamo: Seine net (rocky shore, spiagge sabbiose e mangrovieti, salt marsh) Tra parentesi riportiamo le zone maggiormente adatte al metodo di cattura indicato. |
Un chitone fotografato lungo le coste di Sharm El Sheik, alla ricerca di cibo. Sulla destra, in basso un mollusco patelliforme perfettamente mimetizzato. Fotografia: Castronuovo M. Nicola.
ALCUNI MISTERI DEI PESCI INTERTIDALI
Dopo la schiusa delle uova, in genere deposte in anfratti delle rocce, le larve di alcune specie intertidali si sviluppano in mare aperto come gli altri pesci. Ma come fanno a ritornare nei loro habitat della zona intercotidale? Ebbene in passato, quando erano ancora pochi gli studi condotti su queste specie, si pensava che le larve avessero la capacità di ritrovare la retta via. Poi studi più approfonditi hanno evidenziato che la densità delle larve delle specie intertidali è relativamente alta lungo quella fascia di acque calme parallele alla costa, quindi si presume che le stesse larve non si allontanino mai molto dalla zona di schiusa, anzi negli anni ’80 J. B. Marliave allora all’acquario di Vancouver dimostrò che le larve di alcune specie neanche si allontanavano dalla zona di schiusa, e popolavano tranquillamente dei tratti di costa sottoposti all’azione violenta delle onde. La dispersione risulta minima, e individui della stessa specie non sembrano mescolarsi a individui di altre popolazioni poco lontani.
Un altro mistero riguarda la capacità degli adulti di ritrovare il luogo di origine se allontanate forzatamente dall’uomo. Gli studi sono stati fatti prevalentemente sul Cottide Oligocottus maculosus. Circa l’80% degli individui allontanati di almeno 100 metri dalla loro “casa” tornavano regolarmente indietro. I più anziani mostrano maggior capacità di orientamento, probabilmente grazie alla vista, mentre i più giovani e inesperti presentano maggiori difficoltà.
Non tutte le specie sono così abili, molte infatti si mostrano molto pigre e non si muovono quasi mai, e se allontanate non fanno ritorno, ma non è nota la motivazione, date le loro scarse capacità natatorie, potrebbero anche finire catturate e predate da altre specie.
Molte specie sono carnivore, altre erbivore e carnivore e infine, poche, esclusivamente erbivore. Data la scarsa quantità di proteine delle alghe, probabilmente queste specie ricavano amminoacidi dalle specie animali che vivono sopra le alghe. L’alimentazione e l’approvvigionamento di cibo sono correlate ai cicli delle maree, ma essendo molte specie prive di vescica natatoria, non è noto come possano percepire le variazioni di pressione, e sincronizzarsi perfettamente con i cicli delle maree.
Balanidi fotografati nella zona intercotidale di Sharm El Sheik. Fotografia: Castronuovo M. Nicola.
CURIOSITÀ
Alcune specie, come Cebidichthy violaceus e Xiphister mucosus sono carnivore allo stadio larvale, ma divengono completamente erbivore da adulti, scegliento alghe rosse e verdi particolarmente ricche di carboidrati e proteine.
Sopra, Oligocottus maculosus o Tidepool sculpin in lingua anglosassone, in grado di ritrovare la zona di origine se allontanato da essa. (Fonte A Field Guide to Pacific Coast Fishes: North America. Houghton Mifflin Harcourt (1983)
BIBLIOGRAFIA
- Michael H. Horn, Robin N. Gibson - Pesci che vivono nella zona di marea – Le Scienze 235, 1988
- Michael H. Horn, Karen L. M. Martin, Mike Chotkowski - Intertidal Fishes Life in Two Worlds. Academic Press 1998
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